A cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, vero cuore di tenebra della nostra storia repubblicana, ancora nessun colpevole è stato individuato dalla giustizia italiana. Eppure da allora molti misteri sono stati risolti e alcuni responsabili sono stati effettivamente individuati. E raccontare dove nasce il “mostro” è possibile, oltre che doveroso. Anche perché molti fili portano dalle nostre parti. In Veneto. All’epoca le nostre città erano al centro delle trame di Ordine Nuovo e dintorni e molto passa anche da Verona.

E proprio a Verona, alla Libreria Feltrinelli di via Quattro Spade, hanno presentato il loro nuovo libro dal titolo “La strage degli innocenti” i giornalisti Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese, che già nel 1999 avevano pubblicato “La strage”, un libro che per la prima volta portava l’origine di questa trama labirintica nel Veneto più profondo. Un libro scomodo, che costò loro anche una querela per diffamazione, ma che non fermò dall’indagare i due, che oggi ritornano a parlare della strage impunita. Pur consapevoli del “contesto”, vanno ancora una volta a Mestre, a Paese, a Spinea, ad Arzignano e attraversano la nebbia della provincia di Padova, di Vicenza e di Treviso. Arrivando fino alla città di Giulietta e Romeo. Perché è proprio in queste zone che bisogna tornare per cercare le ragioni della morte di diciassette persone alla Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969 e di otto persone a Brescia in piazza della Loggia il 28 maggio 1974. E delle vittime di molte altre stragi degli Anni di Piombo. Ne abbiamo parlato con uno dei due autori, Gianfranco Bettin.

Gianfranco Bettin

Bettin, da dove nasce l’esigenza di questo nuovo libro su Piazza Fontana?

«A cinquant’anni di distanza dalla strage non è stata fatta giustizia fino in fondo. È emersa la verità storica, ma restano alcune zone d’ombra. Purtroppo quando sono emerse le prove i processi a carico di alcuni dei colpevoli erano già stati celebrati, con tanto di assoluzione. E per il principio che non si può processare qualcuno due volte, sono rimasti impuniti.»

Da questo ne deriva anche il titolo della vostra inchiesta…

«La strage degli innocenti si riferisce ovviamente alle vittime, colpevoli solo di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma c’è anche un’amara ironia sui colpevoli veri, che vengono inizialmente riconosciuti innocenti, appunto, anche se in sentenze successive vengono considerati colpevoli, ma non punibili per la giustizia italiana. Questa storia andava raccontata anche in questa chiave. Molto, ovviamente, è stato scritto su Piazza Fontana in questi anni. Questo aspetto, però, era stato messo meno in evidenza e ci tenevamo a farlo, anche perché noi viviamo in Veneto, nei luoghi cruciali della strategia della tensione, nel triangolo cioè tra Treviso, Padova e Venezia. Le città che, con Verona, rappresentano il vero epicentro di tutta questa storia.»

Nella sua presentazione ha dichiarato che certa politica italiana, in particolare alcuni esponenti della Democrazia Cristiana, erano senz’altro consapevoli di quello che poteva succedere e che poi è, effettivamente, successo. Una sorta di rischio calcolato?

«Si, anche se forse non avevano calcolato la determinazione di una parte dello stesso mondo politico e sicuramente di Ordine Nuovo. Tutti determinati a spingere ben oltre la strategia della tensione, cioè a spargere sangue per accentuare il senso di paura nella gente e quindi accentuare il contraccolpo richiesto per, infine, instaurare un regime autoritario. Il minimo richiesto, in questa situazione, era la dichiarazione dello Stato di Emergenza, il massimo – invece – il colpo di Stato,  come peraltro era appena successo in Grecia, nel ‘67, è come succederà poi nel ’73, in Cile.»

Prima parlava di Verona ed effettivamente di recente è emerso anche che ci potrebbe essere il coinvolgimento di un veronese fra gli autori materiali di questa strage…

«Verona è a dir poco cruciale in questa storia, soprattutto per i rapporti che tutta la cellula veneta di Ordine Nuovo e responsabile della strage aveva con alcuni esponenti della base NATO di Verona, oltre che quella di Vicenza. È, cioè, a dir poco fondamentale per questo suo essere interfaccia atlantica della trama. Più di recente è emersa anche una più precisa partecipazione di alcuni esponenti veronesi di Ordine Nuovo o comunque neofascisti, all’epoca molto giovani, nell’esecuzione materiale della strage. Uno di questi è morto di recente, ma gli altri sono ancora vivi. Procure, giornalisti, storici e via dicendo stanno ancora indagando e molti elementi stanno portando a ritenere che questa presenza abbia un potenziale. Un’indagine che, riguardando persone non ancora processate, consentirebbe la riapertura del processo.»

Maurizio Dianese, l’altro autore del libro-inchiesta

Da più parti, soprattutto a livello nazionale, si sta affermando la teoria che vorrebbe la città di Verona, oggi, come una sorta di laboratorio delle Destre, essendo luogo ideale per il proliferare di certo tipo di idee un po’ estreme. Si tratta, secondo lei, di un rischio concreto o la democrazia oggi ha gli anticorpi giusti per contrastare certi rigurgiti?

«La democrazia ha gli anticorpi e reagirebbe se si trovasse di fronte alla minaccia classica fascista. La riconoscerebbe e la combatterebbe. Ha più difficoltà a riconoscere forme nuove di fascismo, che esprimono intolleranza e discriminazione e chiedono lo svuotamento degli istituti democratici, quasi dall’interno attraverso meccanismi un po’ silenziosi, come d’altronde è successo in Ungheria, Polonia e in certi altri Paesi dell’est, diventati “democrature”, gusci vuoti. Non si può certo parlare di dittatura, perché in realtà non c’è il rischio dell’intervento dei militari. Li c’è effettivamente il Parlamento e elezioni democratiche, ma sono molto manipolate. Una volta che hai il controllo della Corte Costituzionale e degli apparati di controllo, dei contrappesi politici insomma, è fatta. È questo si fa con forti campagne che giocano, appunto, sulle paure. Piazza Fontana le provoca con le bombe, mentre oggi vengono evocate ed enfatizzate con la deformazione dell’informazione. È un meccanismo nuovo. Non dobbiamo pensare che torni quello che avvenne a quell’epoca. Può sempre tornare, per carità, ma il rischio in realtà arriva da altri meccanismi. Insomma, il pericolo, oggi, non sono i colonnelli , ma quelli che compiono riforme istituzionali che inizialmente sembrano innocue, ma che vengono suscitate e invocate da chi esalta inutili timori o denigra i sistemi democratici definendoli come poco efficienti e deboli.»

Un momento della presentazione dell’inchiesta alla Libreria Feltrinelli (Foto di Silvia Franceschini)