Al Congresso della Lega Salvini prova a ripercorrere la via del Cavaliere?
Ci abbiamo messo quasi trent’anni a salutare Silvio Berlusconi, passato da Caimano a padre nobile e ora a cabarettista in brevissimo tempo, mentre, tra le macerie di Forza Italia, si aggirano le sue donne con occhi spiritati come in uno scenario post nucleare.

Ora, con l’urgenza di sfuggire a quei famosi 49 milioni, al Congresso del Carroccio Matteo Salvini ha lanciato un suo partito parallelo, con il simbolo della Lega ma a sua immagine e somiglianza. Ovvero, senza correnti e concorrenti, con uno statuto blindato e un unico capo carismatico, ovvero lui. Il tutto per sfuggire ai giudici e conquistare spazio politico a mani libere. D’altronde, lo spazio di FI dei tempi d’oro è una prateria a cui già da tempo la Lega mira nella sua grandiosa ascesa e che ha preso sì nei sondaggi ma ancora non consolidato col voto. Il tutto però, politicamente, ha un costo. Di fatto, molte delle battaglie della Lega sono scomparse, molte delle battaglie di FI sono state assunte. Ora, la Lega (non più Nord) – con nemmeno troppo velato il desiderio di diventare la vecchia balena bianca in stile Tambroni – guida il centrodestra cercando di gestire la elettoralmente piccola ma vigorosa spina di FdI, di cui non può incamerare i voti per cultura politica, per non essere assimilata agli estremisti e immagino per non condividere il gruppo parlamentare con Ignazio La Russa o Maurizio Gasparri, che in effetti un po’ paura lo farebbe a chiunque.

Umberto Bossi

Questa trasformazione era necessaria già alla fine dell’era Bossi, quando al senatùr parve evidente un problema dei partiti di scopo: raggiunta l’Autonomia, finisce il senso della Lega. Oggi, il senso della Lega non è né l’identità culturale italiana (che è un insieme di tutto e il contrario di tutto, quindi niente) né l’Autonomia del nord né il mondo imprenditoriale (visto che, nel bacino leghista, non mancano né dipendenti pubblici né disoccupati) e che non coincide totalmente nell’amato concetto di “popolo”. Ma la democristianizzazione caciarona della Lega, ora “Lega per Salvini”, si può individuare in alcuni passaggi.

Questione mafia. Ricordiamo ancora il tono con cui Castelli rispose a Saviano. Più di recente, il ministero di Salvini non verrà ricordato come di contrasto alla mafia, come dimostra la questione Messina Denaro. In più, è la criminalità organizzata che, storicamente, cerca di venire a patti col vincitore di turno così come, per vincere in certe zone, bisogna prenderne atto e i segnali di interesse ci sono già. Dunque, se il partitone leghista aspira a una dimensione nazionale di primo piano, non lo farà certo con la lotta alla mafia, che continua nel frattempo a infiltrarsi al nord. E la chiusura a ogni tipo di liberalizzazione delle droghe leggere, che è a tutto vantaggio della criminalità organizzata, non sarà passata inosservata.

Linea economica. Il programma economico della Lega chiede meno burocrazia, la Flat Tax (di cui abbiamo già parlato), l’abolizione del limite all’uso del contante, la difesa delle aziende italiane e del Made in Italy e molte altre cose che, se confrontate con il programma storico di FI, coincidono. Compresa la conquista della simpatia del popolo dell’evasione fiscale.

Questione laicità. Siamo passati da un Umberto Bossi molto critico con la Chiesa Cattolica (basti ricordare cosa disse rispetto a Giovanni Paolo) al cuore immacolato di Maria di Salvini, che arriva nei comizi a giurare sulla Bibbia in modo così plateale che finisce per insospettire persino alcune testate cattoliche.

Questione Autonomia. Ne avevamo già parlato tempo fa dalle colonne di questo giornale e basta l’assoluto silenzio del leader della Lega sulla questione per capire il grado di coinvolgimento. Non potrebbe essere diversamente: anche se passo necessario per le regioni del nord, per diventare un partitone nazionale, come dicevamo tempo fa, l’Autonomia è assolutamente controproducente.

Matteo Salvini e Matteo Renzi

Concludendo, il suo progetto di partito personalizzato conta su innegabili elementi di forza: l’eredità del popolo della Lega (con la doppia tessera) abituato a una fede politica mistica; l’esperienza del modello Renzi, che gli ha mostrato come il messia politico fatichi a durare con un partito storicamente strutturato e con leader magari residuali, ma abili (D’Alema); infine, proprio Renzi che, in questo momento, con i suoi voti (magari in cambio di una legge elettorale che gli permetta di sopravvivere) gli permetterebbe di gestire da protagonista una fase politica complessa, magari mettendo ai margini un’arrembante Giorgia Meloni. Staremo a vedere.