Alcune esperienze collettive attivano ricordi molto personali. Il pensiero, quando si accenna a questi temi, va quasi sempre all’11 settembre 2001, ma in Italia nessuno dimenticherà mai quello che stava facendo nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1992. Esattamente trent’anni fa. Più o meno verso le 18, quando a Capaci, il paese vicino a Palermo situato nelle vicinanze dell’autostrada che collega il capoluogo siciliano a Trapani passando per l’aeroporto, avvenne una tale esplosione che destò l’attenzione di chiunque si trovasse in zona, anche a distanza di diversi chilometri.

Quel giorno il giudice Giovanni Falcone stava tornando a casa da Roma, come faceva solitamente nel fine settimana, insieme alla moglie, la magistrata Francesca Morvillo. Partito da Ciampino con un jet di servizio intorno alle 16:45, atterrò all’aeroporto Punta Raisi di Palermo dopo un volo di 53 minuti. Qui, ad attenderlo, c’erano tre Fiat Croma blindate con la scorta. Falcone si mise alla guida della Croma bianca, togliendo scherzosamente il posto all’autista giudiziario Giuseppe Costanza. La macchina di Falcone era preceduta da una Croma marrone, con gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, e seguita da una Croma azzurra con gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.

Arrivati nei pressi dello svincolo di Capaci le tre auto furono completamente distrutte da una detonazione. L’immagine che abbiamo ancora impressa nella memoria è sconvolgente: centinaia di metri di asfalto furono strappati e la terra del campo scolpita dal sangue. Il tuono era stato così fragoroso da venir addirittura registrato presso l’Istituto di Geofisica e Vulcanologia del Monte Erice. Un minuscolo movimento per gli aghi di un sismografo abituato alla terra nervosa. Uno shock storico per l’Italia, che già stava assistendo in quei mesi alla decomposizione di un’epoca.

Falcone e Morvillo vennero sbalzati fuori dall’auto. Morirono pochi minuti dopo e con loro quel giorno persero la vita Schifani, Dicillo e Montinaro.

Le bombe che sconvolsero il mondo

Dal luogo dove è stata fatta saltare in aria la Fiat Croma bianca, a pochi metri dal bivio per Capaci, si vede benissimo la collinetta da cui Giovanni Brusca, per ordine di Salvatore Totò Riína, azionò il detonatore di oltre 400 chili di trinitrotoluene (TNT) nascosto sotto un cavalcavia dell’autostrada. Sulla torretta bianca, dove si nascondeva per avere una prospettiva migliore, qualcuno ha scritto a grandi lettere nere: “No alla mafia”. Una scritta ancora oggi ben leggibile.

Quelle bombe sconvolsero il mondo, ma in realtà hanno avuto un ulteriore effetto, probabilmente non previsto dalla Cupola: hanno, infatti, dinamizzato anche gli equilibri di potere tra la mafia e uno Stato che in quei giorni stava letteralmente annaspando con il caso di mega-corruzione Mani Pulite.

La morte di Falcone e Borsellino ha dato il via al temuto 41 BIS – il regime carcerario che trattiene i prigionieri in isolamento per tagliare loro la possibilità di perpetrare il loro comando e sotto il quale rimangono ancora oggi alcune centinaia di detenuti- e ha ridotto Cosa Nostra ai minimi termini.

L’inarrestabile

Catturare Bernardo Provenzano è stata una liberazione collettiva. Dopo 43 anni di latitanza è caduto nel 2006 dopo aver diretto la Cupola dal suo rifugio a Corleone, attraverso le note dattiloscritte che inviava persino all’estero. Fu catturato da Renato Cortese, allora capo della mitica squadra mobile. Quella cattura ebbe un doppio significato: militarmente arrestare il capo dei capi significava smantellare l’organizzazione, ma l’aspetto più importante era l’impatto che ebbe sui siciliani. Ai quali appariva inarrestabile, invisibile, in fuga da 43 anni. Per tanti era la rappresentazione del male ma anche una sorta di mito dell’invincibilità. Quando è caduto si è sciolto anche l’aurea quasi mitica che aveva.

Bernardo Provenzano, il giorno della cattura

L’omicidio di Falcone e gli anni che seguirono fornirono diverse indicazioni agli investigatori. La prima: quando la mafia non uccide, fa affari. Il secondo: rumore e bombe spaventano i soldi. Provenzano lo mise in pratica con la tattica dell’immersione. Dovevi nasconderti e infiltrarti nelle istituzioni. E ne ha preso atto la ‘ndrangheta, organizzazione ancora basata su legami di sangue e molto più affermata a livello internazionale, che ha anche approfittato del vuoto di potere che la lotta alla Mafia ha creato per accaparrarsi una buona fetta di mercato. Oggi è potenzialmente più pericolosa perché è più diffusa, sia in Italia che nel mondo. Nel rapporto annuale antimafia la ‘ndrangheta viene descritta come un’organizzazione che gestisce “centinaia di miliardi di euro, che governa ogni tipo di dinamica economica, legale e illegale in Italia, ma anche in luoghi come Australia, Sud America, Europa e Nord America, passando per tutti i possibili paradisi fiscali. Una struttura con una sorta di consiglio di amministrazione di una holding che “elegge il suo presidente” e che organizza in modo ordinato e obbediente le sue filiali internazionali.

La capitale della Mafia

D’altra parte, negli ultimi anni l’Italia ha scoperto un altro fenomeno criminale già noto come Mafia Capitale. Un’organizzazione nata da varie braci criminali confluite a Roma (Camorra, ‘ndrangheta, estrema destra) e comandata da vari esponenti. Soprattutto per Massimo Carminati, che negli anni ’80 faceva parte della mitica banda della Magliana, fascista e militante di una banda di terroristi di estrema destra. Mafia Capitale si è aggiudicata numerose commesse dal Comune di Roma. E per riuscirci ha fatto ricorso al metodo mafioso.

Ma Cosa Nostra perché tace? Perché è indebolita, o perché, come dimostra la sua storia, ha in passato alternato fasi rumorose a fasi più silenziose nell’intento di fare più affari? Occorre essere sempre vigili, perché è un’organizzazione che ha solo bisogno di trovare un cervello per rimettersi in piedi. La guardia, insomma, non va mai abbassata. Perché potrebbe essere solo una fase di transizione.

Falcone e Borsellino, in un celebre scatto

Perché ricordare ancora?

Sono passati 30 anni, nel bene e nel male, dalle stragi di Capaci e via D’Amelio e dalla successiva reazione dello Stato, ma ormai molti degli arrestati, si fa fatica a crederlo, hanno nel frattempo già scontato la pena e stanno uscendo dal carcere. Altri lo hanno già fatto. E potrebbero tornare a riorganizzarsi. Certo, alcuni sono ormai molto anziani e privi delle energie necessarie per promuovere un’operazione di questo tipo. Però la Mafia rimane sempre un cancro e se salti un “controllo” medico può divampare di nuovo. La guardia deve rimanere alta.

Lo dobbiamo fare per noi e per le generazioni future. E anche per quegli uomini che hanno dato la vita per un’ideale. Un’ideale di Libertà e Giustizia.

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