Non sono molti anni che in campagna elettorale si parlava di un ciclo economico italiano in piena involuzione: aumentano le tasse per l’invecchiamento e il costo del debito, le tasse deprimono l’economia, l’economia depressa genera meno tasse e il default marcia deciso sulle trombe dei Cavalieri dell’Apocalisse. Roba da togliere il sonno. Ora non se ne parla più, ma di fatto nulla è cambiato, anzi (Pil 2019 +0.7). Qualche avvisaglia della burrasca in arrivo l’abbiamo vista con la manovra del governo giallo-verde, che al solo parlare di maggiori investimenti nel sociale ha fatto esplodere lo Spread.

Non è forse un caso che proprio adesso il Veneto e la Lombardia abbiano accelerato il percorso e intrapreso passi concreti verso l’autonomia. Forse, col sovranismo dilagante, è un momento storico particolare; forse è il governo giusto; forse è arrivato il momento di valutare se l’eterna aspirazione all’autonomia sia un sogno irrealizzabile (e la prova sarà il percorso parlamentare del testo): o forse, incredibile a dirsi, la prova che una classe politica sta lavorando – con discrezione – non per l’oggi, ma per una prospettiva temporale di medio periodo.

Qualche anno fa, ai miei alunni, mostravo un sito molto interessante di statistica in tempo reale: all’epoca il debito pro capite era di 32.000 euro (2014), ora è di 39.000. Altro che nostalgia per il vecchio conio. Ma quello che spaventa davvero è ciò che sta per arrivare:

  • Fine del mandato Draghi nel 2019 e del suo sostegno, ora terminato, ai debiti pubblici nazionali col Quantitative easing. Se al posto di Draghi arrivasse Weidmann prepariamoci a invidiare le lacrime dei greci;
  • Arrivo di una nuova recessione economica per il biennio 2020-2021 (e poi di una successiva, e un’altra ancora: vi ricordate di quel cialtrone di Marx con le sue cassandrate di crisi periodiche e sempre più ravvicinate del capitalismo? Ecco, forse non lo era);
  • Dati nazionali economici stagnanti, con un debito in crescita e un Pil sotto zero secondo le ultime previsioni del Sole24ore.

È uno scenario da far tremare i polsi. Solo un’economia solida e con un tessuto sociale coeso e solidale potrebbe sostenere l’impatto di una crisi del genere. Al momento, non sembriamo in grado di gestire le minime vibrazioni che il Governo crea per la sua insipienza. Non si vede nemmeno per le strade uno spirito solidale da Italia anni Cinquanta alla Don Camillo.

L’impressione, invece, è di un generalizzato “ognun per sé e Dio per tutti”. Appare allora di un tempismo eccezionale la concreta possibilità di autonomia delle regioni del nord Italia, in linea con le previsioni russe e tedesche che già nel 2013 vedevano nella frammentazione di molti Stati Europei uno scenario altamente probabile entro il 2035.

L’Italia secondo le previsioni russe

Ora, la storia probabilmente smentirà questa previsione: le vicende dell’indipendentismo spagnolo ci dimostrano che, al momento, la volontà popolare di indipendenza può valere solo per i paesi non UE. Ma, al momento, l’impressione è che qualcosa si stia mettendo in moto, almeno in termini di consapevolezza, come se si fosse colto il pericolo di un disastro imminente.

Dicevano i gerarchi nazisti, ai tempi di Salò, che nel nuovo ordine mondiale il futuro del Veneto e soprattutto di Venezia sarebbe stato di integrazione all’economia tedesca e sfogo per il turismo del III Reich. La guerra nel frattempo è finita (male) per tedeschi e italiani, ma non per questo il progetto non è andato avanti: già nel 2012, un convegno a Treviso mostrava come la soluzione alla crisi economica fosse stata individuata in un’alleanza economica fondata sull’interscambio.

Nel 2017, questo processo è oramai a uno stadio ben avanzato, con la Lombardia e il Veneto in testa, tanto che, secondo il Sole24ore, «Le regioni in prima linea nell’interscambio di merci sono quelle tradizionalmente vicine alla Germania, realizzano volumi pari a quelli di interi paesi industrializzati: la Lombardia con una partnership commerciale (export più import) di 39,4 miliardi di euro è a un passo dal Giappone (40,3) e il Veneto (16,7) supera il Brasile (16,3)».

E qui torniamo alla questione iniziale: senza un cambiamento economico deciso quanto improbabile, l’Italia è destinata malinconicamente a sprofondare e ad essere depredata da prestiti costosi e nazioni affamate di asset strategici a prezzo di saldo. La strategia delle regioni che oggi chiedono l’autonomia, così, assume una nuova prospettiva: vincolare le risorse al territorio, acquisire il personale burocratico necessario dallo Stato, stringere rapporti economici – anche bancari – più stretti con la Germania potrebbero essere tasselli necessari a rendere meno pesante l’impatto di un default sempre più prossimo e i cui effetti potrebbero portare alla fuga di capitali e la chiusura dei servizi pubblici essenziali.

Si impedirebbe o limiterebbe così, tra l’altro, l’ingresso di nuovi attori che potrebbero modificare gli attuali equilibri del Veneto e di Verona, equilibri che i protagonisti attuali, come si accennava tempo fa dalle colonne di questo giornale, non hanno alcuna intenzione di rimettere in discussione.

La partita dei governatori sulle risorse, quindi, si gioca anche su questo ed è fondamentale: la barca affonda e chi può prende provvedimenti per salvare il salvabile in attesa della tempesta. Nella bozza d’intesa che circola, tra le molte materie richieste dalla regione Veneto, ci sono non casualmente:

  • casse rurali, enti di credito;
  • previdenza complementare e integrativa;
  • infrastrutture, porti e aeroporti;
  • rapporti internazionali e con l’UE;
  • istruzione, compreso il personale e le risorse economiche per la sua gestione;
  • competenze tributarie (e si veda con attenzione anche l’art. 5, p. 6) che comprendano anche quote dell’Irpef.

Tutto questo con un impattante ridimensionamento delle risorse inviate a Roma (cfr. art. 4, p. 1). Zaia è contento, ma non del tutto: l’accordo per lui è firmabile al 70% perché, di fatto, il Veneto non avrebbe un’autonomia finanziaria ma, su concessione del Mef, solo una compartecipazione tributaria.

«In amore, la miglior vittoria è la fuga» diceva Napoleone. Forse vale anche per l’economia. In conclusione, il Veneto, partendo da storiche aspirazioni secessioniste, potrebbe aver impostato la sua strategia di sopravvivenza su due fronti: farsi amico il lupo cattivo, stringendo relazioni sempre più strette con la Germania nella logica del “Bacia la mano che non puoi tagliare” (proverbio Tuareg) e, nel contempo, raccogliere le proprie risorse, separandole e preservandole dal tracollo di un’entità statale data ormai per spacciata.
La partita in Parlamento, dunque, non è tanto o solo la secessione dei ricchi dai poveri. È evitare di essere trascinati nel gorgo muti.