Parafrasando il paradosso del mentitore: se un cretese affermasse che tutti i cretesi sono sempre bugiardi, mentirebbe o direbbe il vero? Questione apparentemente oziosa. Ma riportiamo questo paradosso alla realtà di Veronetta nel dicembre del 2018, con lo sconquasso creato dalla presenza di forze di estrema destra di ispirazione fascista: con un voto regolare e democratico, se i cittadini di uno Stato decidessero di eleggere un governo che nel suo programma proponesse l’abolizione della democrazia, potrebbe la democrazia accettarlo?

Cos’è la democrazia. «Forma di governo in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi; forma di governo che si basa sulla sovranità popolare esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, e che garantisce a ogni cittadino la partecipazione, su base di uguaglianza, all’esercizio del potere pubblico» dice una definizione di democrazia: un sistema che connota i Paesi occidentali e che, sull’onda del declinante impero americano, si è cercato di esportare nei paesi sotto la sua sfera d’influenza.

Il modello americano. Ed è appunto l’America il modello di riferimento per la democrazia moderna: diritto assoluto di stampa che si esprime in un controllo ossessivo del potere anche per questioni morali (come lo scandalo Clinton, ad esempio), senso del dovere civico, uguaglianza formale.

Di fatto, se i motori sociali dell’essere umano si sviluppano su due aspetti, il desiderio di far parte di qualcosa (il gruppo) e il desiderio di emergere come individuo, non possiamo non notare che questo sistema penalizza fortemente una di queste due istanze. Se il tallone d’Achille delle democrazie popolari sovietiche era l’uguaglianza sostanziale, imposta fin dagli esordi della Rivoluzione con la cancellazione di coloro che non intendevano adeguarsi a un ideale che cancellava la libera iniziativa e l’ideale borghese (come, ad esempio, i Kulaki, la prima classe di contadini imprenditori della Russia zarista), per quelle occidentali è l’individualismo spinto ed egoistico il vero limite: nella vita e, quindi, nella politica. E sin dai tempi dello stoicismo, dell’epicureismo e del circolo scipionico, l’individualismo è nemico della partecipazione alla vita della Polis. Fatta eccezione per la sfida Clinton-Trump, la percentuale dei votanti alle elezioni negli U.S.A. è sempre piuttosto ridotta. Non va meglio in Italia, dove la percentuale dei votanti è costantemente in calo.

Il malessere della democrazia. Questo sistema, è tuttavia evidente, soffre del male di tutti i sistemi di gestione della convivenza tra esseri umani: sopravvive finché la spinta, le motivazioni sociali e la coscienza del popolo che li ha prodotti vibra. È questa una lettura della storia alla Giambattista Vico, che vedeva nella Repubblica di Platone il punto di arrivo di un percorso evoluzionista dell’umanità, che nella vulgata corrente propone il sistema democratico come il migliore dei sistemi possibili. Ma l’evoluzionismo storico è oramai un rottame ottocentesco: il bianco europeo non regge più la fiaccola della civiltà e persino la sbronza entusiastica postbellica nata con la fine dei totalitarismi sembra aver perso il suo effetto. I motivi sono molteplici. Alcuni, in ordine sparso:

  • La fine dell’ideologia. Si è rinunciato a un modello di politica che disegni un sistema in cui ciascun individuo faccia parte di un progetto complessivo, inclusivo e suggestivo, in cui ogni cittadino possa avere un ruolo eticamente attivo. Il modello attuale è di una semplice gestione amministrativa, con l’individuo costruttore della propria verità e uno Stato garante della sua assoluta libertà nell’applicarla. Per molti, una prospettiva esaltante. Altri invece la pensano come Alexis de Tocqueville: «Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri». Il mercato, che ha colto da tempo questo cambiamento, cerca infatti quotidianamente di ribadire il nesso inscindibile tra acquisto/possesso di un bene e la felicità individuale: il fanatismo settario frutto del pioneristico marketing Apple è paradigmatico in questo senso.
  • La perdita della percezione di comunità. La democrazia ateniese, la prima nella storia, contava dai 20.000 ai 40.000 cittadini maschi con diritto di voto e accesso ai luoghi del potere. I principi fondamentali erano 4: uguaglianza, sorteggio, retribuzione, partecipazione; per certi versi, più onesta delle attuali, specie per la scelta per sorteggio (anche se valida non per tutte le cariche, ovviamente). Una democrazia diretta che paradossalmente si fondava sulla diseguaglianza, ovvero sulla discriminazione degli schiavi, degli stranieri e delle donne; esattamente come la democrazia statunitense che alla sua instaurazione emarginava i veri nativi, gli indiani d’America. Oggi, le democrazie occidentali sono composte da milioni di individui, culturalmente disomogenei (anche per effetto della globalizzazione e delle migrazioni), che occupano spazi che vanno ben oltre il confine del proprio territorio di nascita e ben oltre la capacità, necessaria per l’uomo, di costruirsi un’immagine del proprio orizzonte. Lo Stato, così, nella mente del cittadino perde progressivamente concretezza e viene allora percepito come presente solo quando si palesa con la burocrazia: le tasse, gli obblighi (ci sarebbero anche cose positive, ma l’uomo tende a dimenticarle in fretta…). Un mondo kafkiano in cui le ragioni formali della burocrazia travolgono la giustizia e il buon senso. Ecco dunque come i movimenti di protesta (il No Tav, l’emergenza Xylella, le spinte autonomiste catalane e venete…) identifichino il nemico con lo Stato che danneggia/saccheggia il territorio o non ne riconosce o rispetta le specificità.
  • In un mondo dalla comunicazione così veloce, l’approfondimento richiede tempo, energia, impegno doveroso quanto necessario per il cittadino attento e consapevole. Non basterebbe una giornata per potersi costruire un’idea fondata e ponderata su un problema, e i problemi si accumulano incessantemente uno dopo l’altro sull’onda della cronaca. Insomma, il cittadino oggi ha troppo poco tempo per comprendere un mondo di contro troppo complesso: non può occuparsi di tutto e non può essere competente in tutto e non ci inganni come, sui social, ciascuno di noi a giorni alterni diventi un esperto medico sui vaccini, un guru della finanza e via dicendo. Si fa largo la necessità di delegare. Ma la delega non è democrazia, è la rinuncia all’esercizio democratico. Pensiamo, in Italia, a quanto lo Stato di diritto abbia dovuto rinunciare per il mancato raggiungimento del quorum su referendum importanti. “Lasciamo decidere a chi è pagato per farlo” spesso la risposta degli astenuti. Ma chi è eletto come rappresentante non necessariamente è più competente del cittadino medio né lo garantisce un lauto stipendio. In realtà, la democrazia indiretta o rappresentativa non risolve la questione, in quanto riassuntiva (e quindi non veritiera) rispetto alla volontà popolare oltre che deresponsabilizzante. È uno strumento di controllo, tant’è vero che, se uno volesse effettivamente gestire in prima persona il proprio diritto di esercitare la sovranità, non potrebbe se non passando per un’elezione che dovrebbe legittimare un diritto che teoricamente ha già.
  • La democrazia non ha cancellato le oligarchie precedenti, le ha solo sostituite con altre. Sconfitte le monarchie, i sistemi democratici non hanno realmente riportato il potere nelle mani del popolo. Sia nel caduto sistema sovietico, dell’uguaglianza pura, sia nel sistema occidentale, sia nel sistema misto sul modello cinese, gruppi di potere indirizzano l’elettorato attraverso strumenti declinanti (i partiti di massa) o pervasivi (la tv e, oggi, la rete).

Il conflitto è dunque intricato e su più livelli. A livello globale almeno 3 potenze (U.S.A., Cina e Russia: la Francia è un “vorrei ma non posso”) decidono gli equilibri e, anche se in competizione, convergono nella necessità di controllare i cittadini limitandone la privacy di diritto e di fatto, restringendo la libertà di movimento e di pensiero. Lasciando perdere la Cina, che dopo il bavaglio alla rete sta persino progettando bagni pubblici con telecamere a riconoscimento facciale e a impronta digitale, anche gli Stati Uniti, paladini della libertà e del diritto di parola, da anni emanano leggi restrittive, dalla legge Smith (1940) all’ordine esecutivo Truman (1947), dall’Internal Security Act del 1950 fino al Patriot Act del 2001. L’Italia, durante la guerra fredda, mai avrebbe potuto eleggere un governo di sinistra e, quindi, è sempre stata priva di effettiva autonomia: la libertà dei servi, insomma, che si misura anche nella distanza tra le istanze costituzionali e la prassi governativa, tra diritto formale e sostanziale dell’individuo. La democrazia, quindi, non garantisce necessariamente la libertà all’individuo.

Oltre a questo, poteri esterni e sovranazionali interferiscono con le decisioni nazionali. Qualche anno fa la questione dei derivati riempiva le prime pagine e svuotava le casse dello Stato italiano con una polizza assicurativa bizzarra, che affidava a multinazionali come Morgan Stanley il ruolo di scudo contro le turbolenze dei mercati finanziari che minavano la stabilità dell’Italia. Turbolenze – o, meglio, tempeste – provocate, per inciso, dalle stesse banche. Il gioco delle tre carte, insomma: obiettivi il guadagno tout court e costringere l’Italia ad adottare riforme gradite ai mercati ma non agli italiani (la riforma detta Fornero, ad esempio). È una realtà sotto gli occhi di tutti che società finanziarie con disponibilità economiche superiori al PIL di molti stati avanzati, in accordo o in parallelo con le tre potenze, perseguano strategie indipendenti o in contrasto con le decisioni legittimamente prese dalle democrazie nazionali, condizionando i rappresentati dei governi con finanziamenti leciti (o illeciti) e spostando la sovranità dalla volontà dei cittadini all’interesse degli azionisti. In questo intrecciarsi di esigenze politico-militari internazionali e locali, di esigenze di entità economiche esterne ai governi nazionali (ma paradossalmente finanziate dai risparmi dei cittadini di molti di quegli stessi Stati, che potrebbero votare in un senso e comprare azioni di una multinazionale che agisce in senso opposto, magari senza saperlo) la voce del singolo individuo nel rivendicare la propria parte di sovranità è forzatamente destinata a perdersi.

Ecco dunque il male oscuro che rode la nostra democrazia: un contenitore privo di contenuti, che nella disaffezione e nel disimpegno lascia spazio a forze che democratiche non sono, è destino a smarrire la propria funzione. Ed ecco come in coloro che ancora si ostinano a cercare una quadra tra l’interesse collettivo e quello individuale la democrazia non è più un dogma.

Pars construens. «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora» disse Churchill alla Camera dei Comuni nel novembre 1947: forse è invece ora di pensare a qualcosa di nuovo, che affronti il problema maggiore, ovvero la disaffezione. Forse è ora di sperimentare qualcos’altro, sfruttando strumenti tecnici e comunicativi impensabili per il passato, superando una apparente democrazia come l’attuale e puntando a una gestione del potere a piccoli gruppi e in territori circoscritti, con un’identità forte. Un modello attivo, nel quale chi non sia interessato ad esercitare il proprio potere ne venga sollevato.

Forse è ora di stabilire collettivamente una idea di società, un obiettivo condiviso e la possibilità di distinguersi nella realizzazione di quell’obiettivo.

«‘l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse»

scrisse Dante nel canto XVI del Purgatorio e lo ribadì nel III libro del De Monarchia. L’Alighieri tentò, con la teoria dei due soli, di armonizzare il potere temporale con quello spirituale. Questi due poteri oggi sono, ieri come oggi, l’interesse collettivo di specie e il diritto alla felicità individuale. Si apre quindi la necessità di un potere generale, Dante direbbe universale, che limiti le ingerenze e le distorsioni del mercato internazionale per permettere, al contempo, all’individuo di realizzarsi come persona e di sentirsi parte di una comunità detentrice di un potere effettivo su di sé.

Forse è giunto il momento di considerare l’idea che molti dei dogmi che ci siamo costruiti e che ci definiscono come società vengano ridiscussi e superati, anche quelli che oggi sembrano irrinunciabili, per aprire una fase nuova.