Il vero mistero della violenza sulle donne è come mai, nonostante tutte le iniziative di mobilitazione per sensibilizzare l’opinione pubblica in merito, vi sia ancora violenza sulle donne.
Dalle “scarpette rosse” fino al segno rosso sotto l’occhio fatto con il rossetto, non si contano le iniziative che in questi giorni occupano gli spazi mediatici e fisici per denunciare che nel XXI secolo vi sia ancora chi caccia le donne letteralmente come selvaggina. Eppure, nonostante tutte le “giornate mondiali” e nonostante il fatto che praticamente ormai non esista più un’amministrazione locale ove non vi sia un assessore con delega alle “Pari Opportunità” che promuova eventi e attività per sensibilizzare la coscienza collettiva contro la violenza, le donne in Italia continuano a morire per mano di uomini, alla media di una ogni 3 giorni, e nella maggior parte dei casi per mano di loro compagni o ex compagni. Questa circostanza dovrebbe farci sospettare che l’efficacia delle mobilitazioni sociali contro la violenza di genere – che, a parere di chi scrive, sempre di più assomigliano in maniera inquietante a rituali di massa di esorcismo collettivo – sia pari a quella dei gessetti colorati contro il fondamentalismo islamico.
Ma, forse, il problema della violenza di genere sulla donna è mal posto. Forse il fenomeno del femminicidio è la punta dell’iceberg di una situazione di minorità che la donna subisce nella società. La violenza è solo il pugno che colpisce il viso? L’acido che sfregia? La lama del coltello che penetra nelle carni? Il fuoco che le brucia? Oppure la violenza è anche il sistematico attacco ai diritti acquisiti femminili da parte di forze reazionarie del nostro Paese, seppur accettate socialmente come interlocutori politici sistemici? Come, in particolare, i movimenti che vorrebbero mettere in discussione la legge 194 e le proposte di legge sul divorzio che riporterebbero indietro l’orologio del progresso sociale di decenni.
La violenza che le donne subiscono giornalmente è anche il mancato riconoscimento della parità salariale di genere a parità di incarico, è la negazione alle madri lavoratrici del diritto a gestire il loro orario di lavoro in modo da poterlo armonizzare con le esigenze dell’esser genitori, è la lettera di dimissioni in bianco che certi datori di lavoro fanno firmare prima dell’assunzione, in modo tale da potersi liberare delle lavoratrici qualora rimanessero incinte.
La violenza che devono subire le donne sta anche nell’essere obbligate ad ascoltare gli osceni proclami di qualche politico, anticonformista di massa, che periodicamente dichiara che il problema della violenza sulle donne non esiste e che è una creazione dei “buonisti”.
Dobbiamo abituarci a pensare che la violenza fisica sulle donne è la diretta conseguenza della violenza sociale esercitata contro di esse, nel momento in cui la società definisce il loro status come inferiore rispetto a quello maschile. E considerare “inferiore” l’oggetto su cui praticare violenza è il prerequisito per poterlo fare in maniera “neutra”, senza rimorsi o freni morali. Le costruzioni sociali, le cosiddette “megamacchine”, sono le creazioni più durature dello spirito umano. Più ancora dei monumenti. Strutture sociali generate secoli addietro tutt’oggi producono conseguenze talvolta senza che ce ne rendiamo conto. La strada per la liberazione sociale della donna, primo passo per la sua salvezza fisica dal boogeyman del femminicidio, passa in primo luogo dall’evitare una pericolosissima trappola, ovvero la trasformazione dei rituali di esorcismo collettivo della violenza di genere in qualcosa di simile al galateo ottocentesco – ovverosia un sistema di convenzioni sociali nel quale la sottomissione di fatto della donna era mascherata da un complesso rituale di norme esteriori che davano lei la predominanza formale –.
La strada per la salvezza della donna passa prima di tutto da una cosa che pare passata di moda, seppellita sotto il ciarpame ideologico degli ultimi 40 anni: la forte rivendicazione della sua parità sociale di status rispetto all’uomo.