La riflessione politica in quest’alba del XXI° secolo è dominata dal termine “populismo”. In Taglia in particolare tale riflessione si è fatta urgente, essendo lo stivale il primo paese €peo nel quale si è affermata una maggioranza di governo, composta da Lega e M5S, che si autodefinisce esplicitamente “populista”. In questa sede si proporrà una ipotesi lettura del populismo come l’ultima manifestazione nell’età digitale di un fenomeno storico ricorrente,  la ribellione antielitaria di massa.
 
Punto di partenza è la nozione del populismo come movimento di ribellione delle masse che stanno alla base della piramide sociale contro le élite che ne occupano il vertice. Lettura indubbiamente corretta, ma se spingiamo l’osservazione un poco in profondità, possiamo renderci conto di come il populismo affondi le sue radici in una versione secolarizzata della weberiana “teodicea della sofferenza”, per la quale una massa disagiata che si ritiene defraudata, rivendica il suo disagio come elemento di merito in vista della futura liberazione.
Storicamente le rivolte antielitarie in €pa hanno assunto il nome di “Jacquerie”, dalla denominazione data alle sollevazioni contadine contro il sistema feudale della Francia medioevale. Le cause scatenati di tali ribellioni furono diverse, dalle alte imposizioni tributarie, alle crisi provocate da stati di guerra endemica fino agli shock derivanti da epidemie quali la peste nera.
I populismi del XXI° secolo hanno le medesime caratteristiche di ribellione dal basso contro  il vertice della società. Ciò è immediatamente evidente nella retorica del “capo politico” del Movimento M5S, il quale ha affermato che la legge di bilancio redatta dal governo populista avrebbe “abolito la povertà” e sarebbe stata “la manovra del popolo, che ripaga la gente di tanti torti e ruberie” (teodicea della sofferenza).
Lo studio più approfondito delle rivolte popolari nell’€pa premoderna ha messo in luce che assai spesso esse hanno avuto una preponderante componente misoneista, ovverosia un atteggiamento di disprezzo e di rifiuto nei confronti di qualsiasi novità o innovazione, e sono state scatenate dalla nostalgia del passato più che dalla volontà di cambiare il presente.
Le jacquerie contadine erano ribellioni di massa contro le élites feudali, e al tempo stesso la manifestazione di un violento rifiuto nei confronti dei nuovi assetti socio economici che l’economia capitalista ai suoi albori stavano imponendo alle società premoderne.
Al misoneismo delle jaquerie fa da riscontro nello stile populista la diffidenza verso il Progresso, testimoniata dall’adesione del movimento 5 stelle al credo della “decrescita felice” propagandato da Latouche, oppure dal suo atteggiamento ostile nei confronti della modernizzazione che si esprime ad esempio nel rifiuto ideologico e aprioristico dello sviluppo infrastrutturale. Diffidenza in parte condivisa dall’alleato di governo leghista, del quale si ricordano le proposte neoluddiste di tassazione dei robot che da esso erano state ventilate in campagna elettorale, oltre alla profonda diffidenza con cui entrambi i movimenti guardano al fenomeno moderno per antonomasia, ovverosia la globalizzazione.
Il richiamo al passato è un importante ingrediente della retorica Leghista, dagli aspetti più banali quali la nostalgia per la lira o quella per il servizio militare, fino all’assunzione esplicita di atteggiamenti reazionari, rappresentata dalla diffidenza verso aborto, diritti civili, politiche di uguaglianza di genere, la macchina del consenso leghista utilizza la narrazione di una passata “Età dell’Oro” come strumento di mobilitazione del consenso.
Le jaquerie furono movimenti di sollevazione violenta, A tale violenza fisica corrisponde nei populismi del XXI° secolo l’utilizzo sistematico della violenza verbale come strumento di mobilitazione del consenso. Il “vaffanculo day” elevò l’insulto a momento fondativo di un nuovo soggetto politico, in cui l’invettiva e l’aggressività verbale nei confronti degli avversari erano (sono) praticati sistematicamente,
Nel linguaggio della Lega, se la violenza non è espressa esplicitamente come nei bellicosi proclami sull’utilizzo della ruspa del suo leader, ad essa si allude implicitamente nel momento in cui si promette che, una volta sul ponte di comando del Leviatano – Stato, monopolista della violenza in senso Weberiano, verrebbe lascata “mano libera” all’apparato repressivo istituzionale.
La violenza verbale poi è il paradigma di confronto del popolo populista con i suoi avversari sui social, i quali sono diventati la piazza virtuale che ha sostituito quella fisica come luogo di confronto politico, ove il branco gentista ricorre all’insulto, alla minaccia, all’aggressione verbale. La violenza che nell’epoca del suo monopolio da parte dello Stato non è in grado di esprimersi in sollevazioni di massa, è incanalata nello stile politico.
Infine, un importante aspetto comune delle jaquerie con i populismi del XXI° secolo è l’uso sistematico della paura come elemento di mobilitazione politica. Aspetto questo che si ricollega al misoneismo esaminato in precedenza, in quanto entrambi sintomi di un atteggiamento paranoide.
L’indagine della storia della paura nell’ €pa del passato ha illuminato con un fascio di luce nuova le vicende che hanno plasmato la morfologia politica e sociale del continente. La paura può essere assunta come una delle (molte) chiavi di lettura della storia dell’€pa, almeno successivamente al 476, data della caduta dell’impero romano d’Occidente. Le sollevazioni popolari non sono state sempre e solo rivolte contro le elites, ma hanno avuto anche per obiettivo gruppi specifici che erano visti come minacce estranee al corpo sociale, ad esempio ebrei, lebbrosi, donne o stranieri. Che la violenza nei confronti di tali gruppi si manifestasse attraverso movimenti spontanei dal basso o persecuzioni sistematiche organizzate dall’apparato repressivo istituzionale, essa era innescata da quelle che oggi chiameremmo “fake news”, ovverosia era la risposta paranoide a notizie prive di fondamento, quali ad esempio l’avvelenamento di un pozzo o la morte inspiegabile di qualche membro della comunità.
Folgorante a nostro avviso è il parallelo che è possibile tracciare tra l’utilizzo della paura nell’€pa premoderna e lo stile politico dei populismi del XXI° secolo, nel cui arsenale propagandistico si trovano l’utilizzo di “fake news”, l’individuazione paranoide di un “nemico” come elemento radicalmente distinto dal “popolo” che essi pretendono di rappresentare in via esclusiva e l’utilizzo di narrazioni prive di riscontri nel Reale per mobilitare il consenso, quando non l’esplicita distorsione/alterazione della realtà.
In quest’ottica vanno lette le narrazioni leghiste che identificano esclusivamente nell’immigrazione la fonte delle insicurezze sociali, oppure quelle pentastellate che riversano su di una indefinita “casta” le colpe per la situazione di deprivazione nella quale si trova il “popolo”.
Abbiamo cercato di tracciare delle linee di collegamento  tra i fenomeni di ribellione antielitaria premoderni e il moderno populismo, per cercare di mettere a fuoco quest’ultimo come l’estrema apparizione di un fantasma che pare abitare l’€pa almeno da quando essa ha iniziato a definirsi tale, nella convinzione che non esistono fenomeni “nuovi” in politica, ma solo nuove manifestazioni di “regolarità”. Il populismo infatti non è solo la risposta “dal basso” alla crisi politica delle democrazie occidentali divampata dopo la crisi economica del 2008, ma è anche l’epifania nell’epoca digitale di atteggiamenti che hanno sempre fatto parte dell’immaginario collettivo €peo. La lettura del populismo del XXI° come fenomeno storico si è soffermata principalmente sulle sue cause contingenti. Ma esso è l’ospite inquietante dell’inconscio collettivo occidentale.  Identificarlo come un fantasma che fa la sua apparizione ricorrente nella storia €pea, se da un lato può risultare frustrare per coloro i quali ritengono di esorcizzarlo con gli strumenti della politica tradizionale, dall’altro può far acquisire una reale e salutare consapevolezza della sua più profonda essenza.