La consapevolezza di avere un pensiero e un’attività mentale autonoma, separata da quella delle altre persone, si acquisisce a partire dall’infanzia e permette di comprendere in parte il comportamento umano. Intervista a Valerio Vivenza, psichiatra e psicoterapeuta.
I concetti che abitualmente utilizziamo non sono sempre esistiti, ma nascono in grembo alla cultura classica, greca in particolare, e ancor oggi esercitano con potenza inaudita la loro efficacia nei nostri orizzonti di pensiero e di senso.
Nell’era in cui anche lo spettacolo è diventato intrattenimento definitivamente casalingo e la TV si è frantumata in innumerevoli rivoli di proposte “on demand”, solo la scuola sembra in grado di mantenere viva la dimensione delle relazioni e l’educazione alla complessità.
Ci sono ambienti ed epoche marcate più da un modello che dall’altro, ma in genere le forme convivono, specie nelle società complesse e stratificate come quelle in cui viviamo oggi. Ecco allora che la nitidezza dei paradigmi classici ci aiuta a comprendere noi stessi e il nostro mondo.
Mentre il digitale ci apre gli infiniti confini dello spazio, ci sottrae, senza che ce ne rendiamo conto, la dimensione umana di un momento condiviso, dotato di significato e capace di ancorarci a una comunità.
Il simbolo indica qualcosa che dietro al senso oggettivo e visibile ne nasconde un altro invisibile e più profondo. Ma quale relazione tra il simbolo e l’essere umano? Tra il simbolo, la nostra vita e la nostra psiche?
Ne parliamo con il dottor Giovanni Frigo, psicologo, psicoterapeuta e antropologo.