Fra i temi sui quali in passato si è concentrata l’attenzione degli studiosi, ce n’è uno di notevole interesse, che, peraltro, da un po’ di tempo non riscuote (a torto) grande attenzione; o, meglio, i temi sono diversi, ma sulla base delle riflessioni che siamo venuti svolgendo, penso che possano esser ricondotti a una dimensione unitaria, ancorché piuttosto complessa. Si tratta di quello che potremo definire il perimetro della sostenibilità etica delle azioni umane. 

Già questa definizione rivela come, alla base di questo nostro percorso, ci sia un concetto molto attuale, che viene proiettato dalla riflessione politica ed economica contemporanea su vasti campi della nostra esperienza. 

Tuttavia il concetto di “sostenibilità” non è recentissimo e, anche se in forma implicita e non dichiarata, appartiene più al passato che al futuro: a un passato nel quale l’assenza della (ri)producibilità meccanica e industriale degli oggetti obbligava tutti a un’accurata e costante attenzione a evitare sprechi e a produrre beni materiali (e immateriali) destinati a durare, più che a deperire e a non essere costantemente sostituiti in un’ottica di consumistica fruizione, funzionale alla continua, incessante produzione di profitto. 

Per sostenibilità etica intendo quindi un modo di vivere le norme e le regole delle relazioni sociali e personali fondato sull’interiorità e sulla maturazione soggettiva, più che sul divieto e sulla sanzione, in linea quindi con i principi della Civiltà di Colpa della quale abbiamo parlato in un precedente intervento. Un quadro di norme diventa sostenibile se produce effetti positivi e di crescita in una comunità, in quanto accettato e condiviso. Nel momento in cui produce tensione e sfocia nel conflitto, il fattore etico assume progressivamente la natura di valore politico e richiede processi di mediazione delicati e complessi. 

Busto di Archiloco di Paro

Cercheremo ora di vedere come andò configurandosi nella Grecia antica un quadro di valori, la cui potenza nell’immaginario collettivo è ancora molto più viva e operante di quanto non si pensi. Prenderei l’abbrivio da un poeta, inquadrato forse in schemi troppo rigidi e per certi aspetti “calunniato dai critici”: Archiloco di Paro, a mio giudizio il più grande dei lirici greci. Nelle storie della letteratura Archiloco viene catalogato sotto il “genere giambico”, un tipo di poesia caratterizzato da toni marcati di invettiva e provocazione. Che fosse un’anima forte e irruenta, non ci sono dubbi, ma Archiloco era capace anche di straordinari momenti di dolcezza e malinconico ripiegamento. Per esempio in occasione di un evento tragico, occorso ad alcuni concittadini, si esprime in questi termini (preciso subito che il Pericle al quale si rivolge non è lo statista dell’età classica. Archiloco vive due secoli prima): 

  Κήδεα μὲν στονόεντα, Περίκλεες, οὔτέ τις ἀστῶν  

 μεμϕόμενος θαλίῃς τέρψεται οὐδὲ πόλις· 
 τοίους γὰρ κατὰ κῦμα πολυϕλοίσβοιο θαλάσσης 
 ἔκλυσεν, οἰδαλέους δ’ ἀμϕ’ ὀδύνῃς ἔχομεν 
 πνεύμονας. ἀλλὰ θεοὶ γὰρ ἀνηκέστοισι κακοῖσιν 
 ὦ ϕίλ’ ἐπὶ κρατερὴν τλημοσύνην ἔθεσαν 
 ϕάρμακον. ἄλλοτε ἄλλος ἔχει τόδε· νῦν μὲν ἐς ἡμέας 
 ἐτράπεθ’, αἱματόεν δ’ ἕλκος ἀναστένομεν, 
 ἐξαῦτις δ’ ἑτέρους ἐπαμείψεται. ἀλλὰ τάχιστα  

 τλῆτε, γυναικεῖον πένθος ἀπωσάμενοι.  (Frg. 13 West)

Le angosce del pianto, Pericle, nessuno dei cittadini

e nemmeno la comunità biasimerà, dandosi alle feste;

tali uomini il flutto del mare vasti-echi

sommerse; gonfi di pianto per i dolori abbiamo

i polmoni. Ma gli Dei, ricordalo, agli insanabili mali,

caro amico, ci hanno dato la forte capacità di sopportare,

come medicina. Questo male colpisce ora alcuni ora altri. 

Ora a noi si è rivolto, e piangiamo una ferita che gronda sangue;

un’altra volta colpirà altri. Ma, suvvia, in fretta

sopportiamo, allontanando il pianto che è proprio delle donne.

E in un’altra occasione, caratterizzata da un evento diverso, ma non meno negativo, presumibilmente una sconfitta in battaglia, così Archiloco parla al suo cuore (il passo è corrotto e la traduzione è solo parzialmente possibile):

 θυμέ, θύμ’, ἀμηχάνοισι κήδεσιν κυκώμενε, 
 †ἀναδευ δυσμενῶν† δ’ ἀλέξεο προσβαλὼν ἐναντίον 
 στέρνον †ἐνδοκοισιν ἐχθρῶν πλησίον κατασταθεὶς 
 ἀσϕαλέως· καὶ μήτε νικέων ἀμϕάδην ἀγάλλεο, 
 μηδὲ νικηθεὶς ἐν οἴκῳ καταπεσὼν ὀδύρεο, 
 ἀλλὰ χαρτοῖσίν τε χαῖρε καὶ κακοῖσιν ἀσχάλα 
 μὴ λίην, γίνωσκε δ’ οἷος ῥυσμὸς ἀνθρώπους ἔχει.   (Frg. 128 West)

cuore, cuore, sconvolto da ineluttabili lutti

difenditi opponendo diretto

il petto agli agguati dei nemici, fermo ponendoti

saldamente; poi: né se vinci esaltarti in pubblico

né se hai perso abbandonarti al pianto chiuso in casa;

ma per le gioie gioisci e per i dolori addolorati

non troppo: impara quale ritmo domina gli uomini.

Il poeta in entrambi i frammenti invita a “non esagerare”. Nessuno, né i singoli abitanti né l’establishment politico vorrà festeggiare, mancando di rispetto a coloro che sono naufragati; ma piangere senza sosta non ridarà la vita ai morti. Analogamente nei momenti di gioia non bisogna eccedere in manifestazioni di esaltata baldanza o, nei momenti di dolore,  rinchiudersi in un isolamento che non aiuta certo a risanare le situazioni. La raccomandazione è la stessa: μὴ λίην “non troppo”. Archiloco invita i suoi concittadini, se stesso e noi, dopo ventotto secoli, a non eccedere. L’invito si basa su una constatazione di fatto: il ritmo della vita è tale per cui gioie e dolori si alternano senza sosta e ora agli uni, ora agli altri capiterà di vivere situazioni analoghe. 

I resti del tempio di Apollo, a Delfi (Grecia)

Troviamo qui applicata in modo esemplare una delle due massime che la tradizione ci ha insegnato essere state scolpite sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi, il santuario più amato dai greci: Μηδὲν ἄγαν, medèn àgan, in latino Ne quid nimis, “Nulla di troppo”. Pare che l’insegnamento risalga ai famosi e venerati Sette Sapienti dell’Età Arcaica greca, fra i quali si ricorda anche un altro celebra poeta e statista, Solone, la cui equilibrata assennatezza è celebrata da Erodoto nel secondo libro delle Storie, alle quali fra poco attingeremo. Prima però vorrei far riferimento a un dialogo poetico fra Solone e un altro celeberrimo poeta della fase arcaica, Mimnermo

Quest’ultimo è noto per alcune affermazioni piuttosto spinte circa la sua visone della vita:

τίς δὲ βίος, τί δὲ τερπνὸν ἄτερ χρυσῆς ’Αϕροδίτης; 
 τεθναίην, ὅτε μοι μηκέτι ταῦτα μέλοι,  (Frg 1 West)


Quale vita, quale gioia mai , senza l’aurea Afrodite?!

Che mi venga un colpo quando queste cose non mi interesseranno più

Mimnermo esprime tutta la su amarezza di fronte alla vecchiaia e al degenerare delle forze, ai dolori e alle fragilità che abbrutiscono l’uomo e lo rendono incapace di amare nel senso più vitale e fisico del termine. La vecchiaia è definita “odiosa e pesante”. Per questo prorompe in una affermazione estrema:

 αἲ γὰρ ἄτερ νούσων τε καὶ ἀργαλέων μελεδωνέων 
 ἑξηκονταέτη μοῖρα κίχοι θανάτου,   (Frg 6 West)

Magari senza malanni e senza pesanti afflizioni

a sessant’anni mi potesse cogliere il destino di morte!

Bisogna riconoscere che sessant’ anni a quell’epoca erano una bella età, ma il già citato Solone gli fa eco con un invito spiazzante: 

 Ἀλλ’ εἴ μοι καὶ νῦν ἔτι πείσεαι, ἔξελε τοῦτο- 
 μηδὲ μέγαιρ’, ὅτι σέο λῷον ἐπεϕρασάμην- 
 καὶ μεταποίησον Λιγιαστάδη, ὧδε δ’ ἄειδε· 
 “ὀγδωκονταέτη μοῖρα κίχοι θανάτου”.   (Frg 20 West)

Ma se vuoi ancora darmi retta, cancella questa affermazione –

d’altro canto non volermene se ho ragionato meglio di te –

e cambiala, figlio di Ligiaste, ma canta così:

A ottant’anni mi colpisca il destino di morte”.

Solone, infatti, afferma:

 γηράσκω δ’ αἰεὶ πολλὰ διδασκόμενος,   

Invecchio imparando sempre molte cose (Frg 18 West)

e in sostanza ricorda che non è con gli eccessi che si raggiunge la vera gioia, ma con uno stile di vita che consenta di comprendere sempre di più il senso delle cose. Ed è proprio con questa sottolineatura che egli, per certi aspetti, si riconnette alla malinconica consapevolezza di Archiloco sul ritmo delle vicende umane, dalle quali si è ammaestrati per comprendere il valore dell’equilibrio. E qui trova applicazione l’altra importantissima massima, forse la più nota, iscritta sul frontone del tempio di Apollo delfico: Γνῶθι σαυτόν  gnòthi sautòn, Nosce te ipsum “Conosci te stesso”. 

Per questo non basta un attimo, non sono sufficienti la gioia o il dolore di un momento, ma è necessario impegnarsi tutta la vita, in un continuo lavorio su se stessi. E Solone è il prototipo di questo impegno, come si può vedere appunto in un episodio delle già citate Storie di Erodoto.

Immagine di copertina: Solone di Francesco Hayez (1813) – Accademia di Belle Arti di Venezia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA