Quando è finita l’Apartheid in Sudafrica? Dipende. C’è chi sta già cominciando a festeggiare il trentesimo anniversario dalla fine della segregazione razziale, nel 1991. I più idealisti sostengono che il crollo è cominciato una domenica dell’anno precedente: quando Nelson Mandela, in completo grigio e pugno alzato verso il cielo, viene liberato. Nel cuore di Soweto, invece, più di qualcuno potrebbe dirvi che l’Apartheid non è mai davvero finita.

Magari avete amicizie sportive, e allora vi potrebbero rispondere che è stata la vittoria degli Springboks al Mondiale di rugby del ’95 a riunire il Paese. Prima ancora del successo calcistico dei Bafana Bafana in Coppa d’Africa del ’96, prima del Waka Waka e dei Mondiali del 2010. Prima che quel lungagnone di Philemon Masinga, scomparso qualche anno fa, venisse a far sorridere i tifosi del Bari in serie A.

Masinga, in serie A, con la maglia del Bari

Quelle, però, erano già Nazionali rivoluzionarie e rivoluzionate. Dove il colore della pelle che sta sotto la divisa da gioco non è più, almeno nelle interviste ufficiali, un problema. Ma quando è cominciata la rivoluzione? Quando si è iniziato, davvero, a giocare tutti contro tutti?

Per rispondere, dobbiamo fare un salto ancora più indietro. Fino alla metà del secolo scorso, su un campo di calcio, che in Sudafrica ha una lunga tradizione. Lo hanno portato gli inglesi, si allestiscono le prime squadre del continente e non è riservato solo ai fedelissimi di sua Maestà o agli afrikaner.

Il calcio in Sudafrica non è mai stato uno sport only white, piace alle comunità nere, ma di certo non è ancora veicolo di integrazione. Allora si poteva trovare il campionato per bianchi, ovviamente, e poi tutto il resto delle gradazioni: quello dei neri, quello dei meticci e pure quello per soli indiani. I salti da uno all’altro non sono previsti, anche se si favoleggia di un turco con una pelle talmente chiara da riuscire a farsi ingaggiare da una squadra bianca.

A fine anni ’50 un ex giocatore e politico indiano, Essop Pahad, fu tra i promotori del primo campionato misto in terra sudafricana. Misto, sì, ma senza bianchi. «Non ci venne mai in mente di chiedere loro di partecipare», spiegava lo stesso Pahad. «Loro erano dall’altra parte del mondo».

Ok, allora quand’è che crolla il muro? Il muro non lo so, ma il primo mattone cede il 18 febbraio 1977. Al Caledonian Ground di Pretoria gli Arcadian Sheperds scendono in campo con Vincent “Tanti” Julius a guidare l’attacco. Scelta azzardata, perché Julius fin lì ha sempre giocato, e bene, in porta. Ah, ed è pure nero.

Per evitare che la partita venga annullata il presidente dell’Arcadian, Saul Sacks, comunica alla squadra la presenza in formazione di Julius solo pochi minuti prima dell’incontro. Lo stesso fa col presidente della federazione, Michael Rapp, che minaccia di escluderli dal campionato. «Faccia pure», la risposta di Sacks. Non succederà.

Nel 1977 Mandela è rinchiuso a Robben Island, Miriam Makeba in esilio e Shosholoza la cantano solo i lavoratori che viaggiano in treno per andare a scavare nelle miniere del Transvaal. Julius è il primo mattone, oppure la prima martellata inferta al muro, come preferite. Giocherà e segnerà senza sosta per i tre anni successivi con gli Arcs.

La Nazione Arcobaleno, oggi

Da lì in poi l’ingresso dei giocatori di colore nelle squadre bianche è inevitabile. «Bianchi e neri devono imparare a giocare assieme», sono le parole del Ministro dello sport Piet Koornhof. Solo giocare però, perché sugli spalti resta in vigore la segregazione. Immaginatevi il colpo d’occhio: diecimila bianchi in un settore dello stadio e, dalla parte opposta, diecimila neri.

Per vedere quella folla mescolarsi ci vorranno quasi vent’anni, un presidente nero e un lungo processo di pacificazione che purificherà quantomeno le ferite superficiali della “Nazione Arcobaleno”. Per quelle più profonde, servirà ancora qualche generazione. Il treno del Sudafrica non ha ancora finito di scalare tutta la sua montagna.