Non si sa se fosse mattina o sera, o forse il meriggio infuocato, sulla piana di Troia.
Fino a poco prima infuriava la battaglia. Volavano i giavellotti ed Ettore “andava per tutto lo schieramento/incitando a combattere, destando la mischia selvaggia” (6.104 sg.). Accorta strategia dell’eroe, poco prima invitato da Eleno “l’ottimo di gran lunga fra gli indovini” (6.76) a rinserrare le file e a incitare i Troiani e i Lici alleati alla lotta, perché tanto non arretrassero sotto l’assalto dei Danai da cadere “in braccio alle donne” della città e ne venisse “riso ai nemici” (6.81 sg.).

Un metodo accorto di organizzazione delle forze, in un contesto di grande difficoltà e assai efficace, anche perché l’invito di Eleno prevedeva un’altra mossa, ovvero che Ettore salisse a Troia per invitare la madre a deporre sulle ginocchia di Atena, come votiva offerta, in cambio di un improbabile soccorso, il peplo più grande e prezioso che avesse nel palazzo e promettesse un sacrificio di “dodici vacche nel tempio/d’un anno, non dome” (6.93 sg.). Obiettivo della richiesta era fermare il figlio di Tideo, “Il combattente selvaggio, il duro maestro di terrore” (…) “davvero il più forte in mezzo agli Achei” (6.97 sg.) la cui furia incontenibile sembrava perfino superiore al vigore di Achille, al punto che “nessuno era capace di pareggiar la sua foga”.

Diomede, “λίην /μαίνεται, οὐδέ τίς οἱ δύναται μένος ἰσοϕαρίζειν” (6.101). Μένος e μαίνομαι, sono dunque le cifre distintive del tremendo figlio di Tideo, che compaiono qualche decina di versi prima che sulla scena entrino, quasi all’improvviso, due protagonisti che stupiranno gli ascoltatori/lettori; come se sul palcoscenico della pianura si accendessero i riflettori per una scena preparata con inquietante maestria da un regista che sa bene che cosa il suo pubblico si aspetta. Il “tema” di Diomede è dunque fin da subito chiaro. Meno definito quello del suo nobile antagonista, ma anche Glauco comunque ha una sua prolessi tematica. Che non fosse fuori posto in quel duello lo si intuisce dalla precisazione di Eleno, che, incoraggiando Enea ed Ettore, afferma “su di voi soprattutto il travaglio dei Troiani e dei Lici consiste” (6.78).

Sarpedone e Glauco sono i capi dei Lici, hanno la responsabilità di un esercito. Sul campo di battaglia come Ettore incoraggia i Troiani, così Glauco incita i suoi. La grande filologia e la scienza della tecnica formulare forse ci ammonirebbero per queste osservazioni. L’Iliade non è l’Eneide e nemmeno – tanto meno – un dialogo di Platone. Assimilarne gli elementi interni alle componenti di una sinfonia è assai rischioso; in questi poemi certe simmetrie sembrano fuori luogo. Di Glauco si parla alla fine del secondo libro: i Lici sono gli ultimi citati, nell’elenco delle forze alleate dei Troiani e Glauco è l’ultimo dei capi ad essere nominato, preceduto dal cugino Sarpedone:

Σαρπηδὼν δ’ ἦρχεν Λυκίων καὶ Γλαῦκος ἀμύμων (2.876)
Sarpedone e Glauco irreprensibile guidavano i Lici

Glauco è sempre: “irreprensibile, perfetto” la sua formula principale è Γλαῦκος  ἀμύμων; ma è ricordato anche per la sua dote di capo:


Γλαῦκος δ’ ‘Ιππολόχοιο πάϊς, Λυκίων  ἀγὸς ἀνδρῶν (7.13)
Glauco, figlio di Ippoloco, condottiero dei Lici

Nel prosieguo del poema il Lici avranno i loro momenti di gloria e Glauco ne sarà sempre protagonista, sarà anche ferito da Teucro, proprio nel passo in cui viene citato per la sua forza, mentre cerca di salire sulla muraglia che i greci hanno eretto a difesa del campo, come κτατερὸν παῖδ᾽Ἱππολόχοιο “gagliardo figlio di Ippoloco” (12.387). Infine toccherà proprio a lui subentrare a Sarpedone, colpito a morte da Patroclo e da solo porsi come punto di riferimento degli altri capi dei Lici.
Ma la prima azione che lo vede protagonista è proprio il confronto con Diomede. E dunque il μένος di Diomede e l’irreprensibile κράτος di Glauco si fronteggiano (6.119.sgg). Non si sa se nell’aria fresca e rugiadosa del mattino o nel fulgore di un meriggio assordato dal canto delle cicale. Il tempo sembra fermarsi sotto le mura della città maledetta e invincibile, all’inizio del dialogo. Ettore sta salendo l’erta che porta alla rocca. Tutt’intorno infuria la lotta, ma le due figure escono dallo sfondo della scena epica e cominciano ad interagire in modo diverso. Non un duello si sviluppa, ma un dialogo. Non prende la mira, Diomede, per scagliare la lancia né Glauco s’avventa con la daga sull’avversario, per anticiparlo sul tempo e impedirgli di recuperare posizione e visione della scena.

I due sono accomunati nella vicenda da un preciso segno linguistico: il duale, tratto specifico delle formule che accomunano sempre i due Aiaci. Il duale, nel contesto di un simile confronto, ritorna ancora soltanto in due episodi: uno di autentica battaglia, ovvero nello scontro fra Enea e Achille (20.158 sgg.); un altro nell’occasione “sportiva” dei giochi funebri per le esequie di Patroclo, quando si fronteggiano Diomede e Aiace Telamonio (23.814), i due campioni assoluti della guerra, dopo Achille, ovviamente. Cambiano i soggetti, ma la formula è sempre la stessa:

ἐς μέσον  ἀμϕοτέρων συνίτην μεμαῶτε μάχεσθαι
in mezzo ai due schieramenti avanzavano insieme, bramosi di lotta.

Glauco di fronte a Diomede, Achille di fronte ad Enea. L’impasto formulare dei due episodi si assomiglia molto (La formula di 23.814 riferita ad Aiace e Diomede è praticamente identica alle altre due occorrenze, tranne un particolare: la desinenza duale del pronome. Ma la questione è troppo tecnica per essere affrontata in
questa sede). Forse siamo di fronte a due declinazioni di un modello analogo. In questo campo non si possono trarre conclusioni con eccessiva facilità, ma se immaginiamo la “bottega del poeta” come qualche cosa di simile a quella di un pittore o di un vasaio, non ci sorprende che, al posto della creta o dei colori, ci siano le parole o, meglio, le formule. Forse, come per le similitudini, esisteva anche per le formule il genere “duello”, con un suo canone di schemi e di passaggi logici. Anche Enea e Achille dialogano, ma il loro è un anticipazione dialettica della furia bellica, della tensione alla reciproca eliminazione (20. 158 sgg.):

…δύο δ’  ἀνέρες ἔξοχ’ ἄριστοι
ἐς μέσον  ἀμϕοτέρων συνίτην μεμαῶτε μάχεσθαι
Αἰνείας τ’ ’Αγχισιάδης καὶ δῖος ’Αχιλλεύς.

176 οἳ δ’ ὅτε δὴ σχεδὸν ἦσαν ἐπ’  ἀλλήλοισιν ἰόντες,
τὸν πρότερος προσέειπε ποδάρκης δῖος ’Αχιλλεύς·

due uomini di gran lunga i migliori
in mezzo ai due schieramenti avanzavano insieme, bramosi di lotta
ma quando furono vicini andando l’un contro l’altro
per primo parlò Achille luminoso piede veloce

e le parole del Pelide non sono certo di prudenza o cortesia, ma di scherno, perché ricordano al troiano un altro episodio nel quale Enea riuscì a salvarsi a stento e solo per intervento divino. Fra Glauco e Diomede, invece si sviluppa un vero e proprio dialogo, il clima è di prudente verifica, le espressioni e la relazione sono di cavalleresca caratura. Le formule per entrambi gli episodi sono peraltro analoghe e lasciano intuire un modello linguistico e strutturale affine (6. 119 sgg.):

Γλαῦκος δ’ ‘Ιππολόχοιο πάϊς καὶ Τυδέος υἱὸς
ἐς μέσον  ἀμϕοτέρων συνίτην μεμαῶτε μάχεσθαι.
οἳ δ’ ὅτε δὴ σχεδὸν ἦσαν ἐπ’  ἀλλήλοισιν ἰόντε,
τὸν πρότερος προσέειπε βοὴν  ἀγαθὸς Διομήδης·

Glauco, figlio d’Ippoloco e il figlio di Tideo
in mezzo ai due schieramenti avanzavano insieme, bramosi di lotta,
ma quando furono vicini andando l’un contro l’altro
per primo parlò Diomede, possente nel grido

Diomede ci appare improvvisamente fatto saggio e prudente. Forse perché in precedenza era stato già ammonito da Apollo, quando più e più volte cercava di aggredire Enea, l’eroe davvero prediletto dagli dei? (5. 440):

ϕράζεο Τυδεΐδη καὶ χάζεο, μηδὲ θεοῖσιν
ἶσ’ ἔθελε ϕρονέειν, ἐπεὶ οὔ ποτε ϕῦλον ὁμοῖον
 ἀθανάτων τε θεῶν χαμαὶ ἐρχομένων τ’  ἀνθρώπων.

attento, Tidide, e sta’ indietro, e non azzardarti
ad aver pensieri pari a quelli degli dei, perché non sono simili
la stirpe degli dei e quella degli uomini che camminano sulla terra.

E dunque il perimetro concettuale e l’assetto linguistico dell’episodio ci rinviano da un lato al modello degli scontri fra grandi protagonisti, dall’altro a una qualche presenza divina nelle relazioni fra uomini, ancorché di livello eroico. Con queste coordinate, sommariamente qui definite, si sviluppa un duetto nel quale, peraltro, uno dei protagonisti sostiene un lungo “a solo”. Ma l’attenzione dell’altro è certa e garantita dalla seduzione del racconto.

Ancora una volta, come ricorda Aristotele, Omero è sì poeta epico, ma sa essere anche drammaturgo. E mentre veste i panni di Glauco, lo spettatore si trova d’improvviso a sostenere la parte di Diomede. L’attenzione infatti dell’eroe argivo coincide con la fascinazione che coglie l’ascoltatore. Glauco – Omero narra, l’Ascoltatore – Diomede segue attentamente e viene a conoscere una lunga e complessa vicenda. Una storia che addolcisce l’animo dell’interlocutore sulla scena, che alla fine risponde con parole di miele e stringe la mano al nemico, appalesandosi come suo antico ospite. La ξενία xenía il “vincolo di ospitalità”
di famiglia ha la meglio sulla violenza della battaglia. L’incontro fra Glauco e Diomede si caratterizza dunque per diversi piani di lettura che molto velocemente cercheremo di esaminare:
1. l’affermarsi di un comportamento improntato alla colpa, più che alla vergogna
2. il paradigma divino, sotteso a guidare le azioni degli uomini
3. il riconoscersi simili nella diversità sulla base della comune natura umana.
I tre piani si presentano in ordine inverso nella narrazione, ma la gerarchia dei significati ci sembra quella che abbiamo suggerito. Vediamoli dunque velocemente in ordine inverso.

Come le foglie (3)
Diomede non ha mai visto fino a quel momento Glauco, lo sorprende il suo coraggio e gli chiede (6.123)

τίς δὲ σύ ἐσσι, ϕέριστε, καταθνητῶν  ἀνθρώπων;
Chi sei tu, nobilissimo, fra gli uomini mortali?

e pone un’alternativa: se Glauco è uno degli immortali, disceso dal cielo, non ha intenzione,di rischiare una brutta avventura, come già accadde al violento Licurgo, figlio di Driante (6.130):

…. Δρύαντος υἱὸς κρατερὸς Λυκόοργος
il figlio di Driante, il violento Licurgo

ma (6.142 sg.):

εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν οἳ  ἀρούρης καρπὸν ἔδουσιν,
ἆσσον ἴθ’ ὥς κεν θᾶσσον ὀλέθρου πείραθ’ ἵκηαι.
ma se sei uno dei mortali che mangiano i frutti del campo,
fatti più avanti, perché più in fretta tu giunga al confine di morte.

Il tremendo guerriero vuole sincerarsi della natura del suo coraggioso avversario. E la riposta non tarda a venire. E non è una risposta da poco: si tratta di una delle più straordinarie formule della letteratura occidentale, una di quelle espressioni che non cessano ancor oggi di essere feconde di ulteriori sviluppi in quel gioco di imitazione ed emulazione che iniziato con i latini, non abbandona le letterature contemporanee: (6.145 sgg)

Τυδεΐδη μεγάθυμε τίη γενεὴν ἐρεείνεις;
οἵη περ ϕύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ  ἀνδρῶν.
ϕύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη
τηλεθόωσα ϕύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη·
ὣς  ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν ϕύει ἣ δ’  ἀπολήγει.

Tidide magnanimo, perché mai mi chiedi la stirpe?
Quale la stirpe delle foglie, tale anche quella degli uomini!
Le foglie, alcune a terra il vento le versa, altre la selva
al suo rifiorire ricrea: ed ecco che subito si fa primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce e l’altra dilegua.

Che importa la stirpe?! Gli uomini passano: cadono e rinascono, come le foglie. La partenza del ciclo è posta nell’autunno, nel tempo della caduta. Il vento getta a terra le foglie, ma altre ne nasceranno a rimpiazzare quelle cadute. La morte che attende Glauco sembra non destare in lui paura. Tutti dobbiamo morire, al di là della stirpe (Orazio tornerà su questo motivo) e come cadono le foglie, così gli uomini. A primavera altre ne verranno, e così anche gli uomini: una generazione nasce un’altra dilegua nel vento della morte, che arriva comunque, ma sempre dopo lo sbocciare di una pur breve primavera. E si osservi il gioco chiastico

La risposta è un autentico ἀπροσδόκητον aprosdóketon “qualcosa di imprevisto”. Non ribatte, Glauco, col vanto della stirpe, non sfida audacemente Diomede a colpi di quarti di nobiltà, ma rovescia la prospettiva: a che serve conoscere la stirpe. Non sarà questa conoscenza a proteggere un uomo dalla sua natura. L’umano irrompe sulla scena ristabilendo le condizioni di parità fondate sulla comune natura, sulla condizione di mortalità ineludibile, non più sul rapporto di forza e superiorità.

Astenersi dal colpire un dio (2)
E tuttavia Glauco non si sottrae alla richiesta e risponde (6.150 sgg.):

εἰ δ’ ἐθέλεις καὶ ταῦτα δαήμεναι ὄϕρ’ ἐῢ εἰδῇς
ἡμετέρην γενεήν, πολλοὶ δέ μιν ἄνδρες ἴσασιν·
ἔστι πόλις ’Εϕύρη μυχῷ ῎Αργεος ἱπποβότοιο,
ἔνθα δὲ Σίσυϕος ἔσκεν, ὃ κέρδιστος γένετ’  ἀνδρῶν,
Σίσυϕος Αἰολίδης· ὃ δ’ ἄρα Γλαῦκον τέκεθ’ υἱόν,
αὐτὰρ Γλαῦκος τίκτεν  ἀμύμονα Βελλεροϕόντην·
τῷ δὲ θεοὶ κάλλός τε καὶ ἠνορέην ἐρατεινὴν
ὤπασαν· (…)

ma se proprio vuoi saper questo per bene conoscere
la nostra stirpe, ebbene: molti uomini la conoscono;
C’è una città, Efira, nell’interno di Argo che nutre cavalli,
dove viveva Sisifo, che era il più astuto degli uomini,
Sisifo Eolida: egli dunque generò Glauco come figlio,
Glauco a sua volta generò l’irreprensibile Bellerofonte
al quale gli dei bellezza e amabile virilità
diedero come compagne; (…)

Parte da molto lontano, Glauco, e in fondo sarà questa la sua fortuna, perché proprio dal lungo excursus di storia familiare, Diomede capirà di trovarsi di fronte all’ultimo rampollo di una schiatta, alla quale anche la sua era da generazioni legata. Il racconto di Glauco è tutto un susseguirsi di insidie, trappole, inganni e incredibili successi di eroi inizialmente protetti dagli dei, poi anche abbandonati e colpiti dall’ira divina. Alla fine (dopo 61 versi) emerge la sua figura, come punto terminale della stirpe (6.211):

ταύτης τοι γενεῆς τε καὶ αἵματος εὔχομαι εἶναι.
da questa stirpe e da questo sangue mi vanto di essere nato

ora sì, Glauco pronuncia la fatidica parola: εὔχομαι euchomai “mi vanto”. Anche lui ora mette in campo l’orgoglio della sua ascendenza, benché tutta la narrazione sia, in certa misura, un meccanismo di smontaggio della vanagloria dell’uomo. Sono gli dei che ne guidano i comportamenti e ne determinano grandezza e miseria. Glauco sembra gettare in faccia a Diomede la sua nonchalance, il suo distacco dalla gloria degli uomini; unica sua cura è non venir meno alla stima del padre. Su questo nemmeno il pensoso eroe Licio si permette di esitare, ma il contesto è ben diverso da quello abituale. Questo è uno dei passi più significativi nel passaggio dalla Civiltà di Vergogna alla Civiltà di Colpa. Qui la valutazione delle gesta non è attribuita alle opinioni del popolo, ma al giudizio del padre, con una svolta radicale di valori.
Rendere conto delle proprie azioni, significa iniziare a considerare bene come agire e avere sempre maggiore nozione del rischio di un gesto sbagliato. Ricordiamo l’invito di Ares al Tidide; ϕράζεο … καὶ χάζεο, “Pensaci bene … e sta’ indietro”: vediamo come valga anche per Glauco e lui ne sia assolutamente consapevole.

Il nuovo paradigma (1)
Il suo atteggiamento infatti spiazza l’interlocutore, non solo perché a una provocazione specifica, concreta e ostile risponde con una considerazione generale, teorica e tale da superare il conflitto nella considerazione della comune condizione umana; ma perché d’un balzo supera l’etica della Civiltà di Vergogna, e introduce la nuova etica della Civiltà di Colpa. Alla posizione di inquieta attenzione all’opinione dei pari, che potrebbero svalutare l’ νδρεία andreia, il “valore” dell’eroe, Glauco sostituisce la consapevole e matura visione di un rapporto basato sul rispetto reciproco e sulla comune condizione, che ha come sbocco comportamentale non più il conflitto, ma il dialogo. E all’improvviso sulla piana di Troia le armi sembrano tacere e lasciare spazio alla lingua, al διάλογος: la lingua diventa in tal modo il nuovo campo di confronto e incredibilmente, inaspettatamente il veicolo di una  ναγνώρισις che interromperà il conflitto e rinvierà ad altri momenti e contro altri nemici la smania di guerra e la voluttà selvaggia del sangue. Diomede diventa all’improvviso cordiale e cortese (6.212 sgg.):

῝Ως ϕάτο, γήθησεν δὲ βοὴν  ἀγαθὸς Διομήδης·
ἔγχος μὲν κατέπηξεν ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ,
αὐτὰρ ὃ μειλιχίοισι προσηύδα ποιμένα λαῶν·
«ἦ ῥά νύ μοι ξεῖνος πατρώϊός ἐσσι παλαιός·
Οἰνεὺς γάρ ποτε δῖος  ἀμύμονα Βελλεροϕόντην
ξείνισ’ ἐνὶ μεγάροισιν ἐείκοσιν ἤματ’ ἐρύξας·
οἳ δὲ καὶ  ἀλλήλοισι πόρον ξεινήϊα καλά·
Οἰνεὺς μὲν ζωστῆρα δίδου ϕοίνικι ϕαεινόν,
Βελλεροϕόντης δὲ χρύσεον δέπας  ἀμϕικύπελλον

Così disse; gioì Diomede forte nel grido:
l’asta conficcò nella terra nutrice di molti,
e poi con parole di miele parlò al pastore di genti:
«Ah, certo tu a me sei antico ospite di famiglia:
Oineo glorioso infatti un tempo l’irreprensibile Bellerofonte
ospitò nel suo palazzo trattenendolo per ben venti giorni;
ed essi poi si donarono l’un l’altro bei doni in segno di ospitale legame.
Oineo donò una cintura splendida di porpora
Bellerofonte una coppa d’oro a due anse.»

(Oineo è il Padre di Tideo, padre di Diomede; Bellerofonte è il padre di Ippoloco, padre di Glauco. I due nonni, quindi, sono legati da vincolo ospitale, nda).

E dunque la forza incontenibile e imprevedibile della parola irrompe a cambiare le regole. Parola che recupera la memoria e ridefinisce i rapporti anteponendo il vincolo etico a quello politico, sovvertendo l’ordine delle relazioni di guerra e imponendo quello delle strutture di pace, così forti e ancorate alla coscienza profonda della tradizione da annullare qualsiasi altra convenzione. Glauco, foglia fragile di una primavera inquieta, perché già prevede l’autunno, con “l’amabile virilità” ereditata dagli antenati neutralizza il μένος brutale di Diomede, rivelandone persino doti di cordiale affabilità: parole di miele escono ora dalla bocca di colui che sembrava un’indomabile belva assetata di sangue. Ε così il racconto del duello si fa paradigma di un nuovo stile relazionale. L’enciclopedia etica del villaggio si arricchisce di un nuovo insegnamento, che supera e vanifica la logica della Civiltà di Vergogna, imponendo nel senso di colpa, e quindi di responsabilità, il principio dell’agire umano.

Non più gli dei guidano e l’uno e l’altro dei due contendenti, ma sono la loro memoria, la loro volontà, il loro rispetto di un principio etico antico, i fattori che sintetizzano la nuova forza che definisce le scelte e determina le azioni. Le parole creano l’incanto di un nuovo orizzonte di significati: il Greco e l’Asiatico si riscoprono legati da antica amicizia e lo scambio di doni, anche se impari e davvero folle (I due alla fine scendono da cavallo, si stringono le destre a confermare il patto di ospitalità e si scambiano le armi; ma quelle di Glauco sono d’oro e valgono cento buoi, quelle di Diomede di bronzo e ne valgono nove. Si può ben dire che l’amicizia non ha prezzo. Il narratore sottolinea che Zeus ha tolto il senno a Glauco, ma forse il capo dei Lici sa che la vita vale di più, nda), a giudizio del poeta che ritorna, finito il dialogo, nella sua veste di onnisciente distaccato narratore, suggella un incontro che si preannunciava sanguinario e finisce invece con il riconoscimento
di un valore supremo: l’ospitalità che solo i mostri come Polifemo non possiedono.

Glauco e Diomede, dunque, sono il paradigma di un cambiamento perché riconoscono il solco di una lunga tradizione.

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