Attore, regista e scrittore, Giovanni Vit ha raccolto in parte l’eredità di Roberto Puliero, figura storica del teatro amatoriale veronese, dando vita a una nuova compagnia amatoriale che oggi porta in scena spettacoli che coniugano tradizione e innovazione. Dal buon successo de Il Palio di Verona, replicato per quattro anni consecutivi, alla vittoria di festival nazionali, Vit ha saputo intercettare un pubblico giovane e trasversale.

Giovanni, sei cresciuto artisticamente accanto a Roberto Puliero. Cosa ti ha lasciato come uomo e come artista?

«Quando parlo di Roberto lo faccio sempre con gioia, anche se un po’ di malinconia resta, perché fa male pensare che rischi di essere dimenticato dalle nuove generazioni. Era una persona speciale, con un’energia rara: libero, curioso, sempre pronto a sperimentare e a trasformare ogni passione in lavoro, senza mai considerare il teatro una semplice questione di soldi. Credeva profondamente in quello che faceva e lo trasmetteva a chiunque gli stesse accanto. L’eredità che porto con me non è stata una scelta programmata: me la sono ritrovata addosso. È una responsabilità grande, che mi impone di continuare una tradizione teatrale storica, ma senza rimanere intrappolato nel passato. Quando riprendiamo uno spettacolo di Roberto non lo facciamo per nostalgia: lo rinnoviamo, lo facciamo respirare, così da divertire e coinvolgere il pubblico di oggi proprio come succedeva trentacinque anni fa.»

Parli spesso di “veronesità”. Come la definiresti?

«È un concetto che si percepisce più che spiegarsi a parole. È un po’ come dire cosa significa essere ‘british’: non c’è una definizione precisa, ma la riconosci quando la incontri. La veronesità è fatta di ironia, di un certo modo di parlare e di muoversi, di un legame fortissimo con la città. Il veronese è critico, brontolone, non risparmia giudizi duri sulla sua città… ma guai a toccargliela. È un rapporto viscerale: puoi lamentarti di Verona tutto il giorno, ma se sei lontano e qualcuno la critica, la difendi come fosse un familiare. Questa ambivalenza è qualcosa che cerchiamo di portare anche in scena, perché racconta molto di chi siamo.»

Nel 2019 la scomparsa di Puliero, poi la chiusura della “Barcaccia” e infine la nascita de “La Graticcia” nel 2021. Come hai vissuto questo passaggio?

«La morte di Roberto è stata uno shock, anche perché nessuno se lo aspettava. Fino a pochi giorni prima eravamo insieme allo stadio a commentare la partita dell’Hellas. In quel momento la Barcaccia era la compagnia più importante del Veneto, con un calendario fitto e contratti già firmati. Abbiamo deciso di concludere quella stagione per rispetto verso il pubblico e per onorare Roberto. Poi, poco dopo, è arrivato il Covid, che ha fermato tutto e ci ha dato il tempo di riflettere. In quei mesi ho capito che non volevo lasciare andare quell’esperienza. Così nel 2021 ho fondato La Graticcia, coinvolgendo alcuni ex Barcaccia e tanti giovani attori. L’idea era dare continuità a un certo tipo di teatro popolare, ma con un’identità nostra»

Il vostro spettacolo di punta è Il Palio di Verona. Come è nato?

«All’inizio ero molto titubante. Il Palio di Verona era stato uno spettacolo iconico di Roberto nel 2009 e non volevo correre il rischio di fare un ‘copia e incolla’. Poi Marino Zampieri, autore del testo, mi ha convinto che potevamo rimetterlo in scena, ma rivisto e aggiornato. Così abbiamo lavorato a una nuova versione, calibrata sulla nostra compagnia e sul nostro modo di fare teatro. Pensavamo di fare sei repliche e invece siamo arrivati a cinquanta, tutte sold out. Credo che piaccia perché parla della città in un modo semplice e diretto, con battute che tutti capiscono, ma senza cadere nella banalità. Racconta una parte di storia che molti non conoscono e lo fa in maniera divertente, creando una sorta di rito collettivo che fa ridere e, allo stesso tempo, rafforza il senso di appartenenza dei veronesi.»

Nello spettacolo parlate anche di Dante. Che rapporto ha Verona con i suoi grandi autori?

«Verona ha un privilegio raro: può vantare sia Dante sia Shakespeare. Ma mentre Giulietta e Romeo sono ovunque, Dante viene spesso dimenticato o comunque poco valorizzato. Nel Palio abbiamo inserito Dante così come lo si percepiva nel Trecento, con un po’ di sospetto, quasi come uno ‘straniero’. Eppure ci ha lasciato pagine straordinarie sulla città, descrizioni che ancora oggi ci permettono di capire usi, tradizioni e persino il senso autentico del Palio. Pochi sanno che, all’epoca, l’obiettivo non era vincere ma arrivare ultimi, perché era un gioco di prestigio sociale e politico. Recuperare queste storie significa dare spessore a Verona e al suo patrimonio culturale.»

Come riuscite a bilanciare tradizione, comicità e temi contemporanei?

«Non è semplice, ma ci siamo dati una regola: non facciamo quello che piace a noi, ma quello che riteniamo giusto per il pubblico, mantenendo però intatta la nostra identità. Il dialetto è una risorsa incredibile, che permette di comunicare in modo diretto e immediato, ma lo usiamo sempre con intelligenza, senza farlo diventare un limite. La comicità è un mezzo potentissimo: se usata bene, non è mai solo risata fine a sé stessa, ma diventa uno strumento per raccontare storie, personaggi e anche problemi contemporanei. Ogni dettaglio, dalla battuta alla scenografia, deve essere curato: il pubblico se ne accorge subito se improvvisi o ti limiti a ‘tirare via’.»

Il teatro fatica spesso a coinvolgere i giovani. Voi come siete riusciti a coinvolgerli?

«È la cosa che ci rende più orgogliosi, perché significa che parliamo un linguaggio che i ragazzi capiscono, e questo li fa sentire parte di una comunità. Quando vengono a teatro non vengono solo per vedere uno spettacolo, ma per vivere un’esperienza. Non prenotano più in coppia come una volta, ma in gruppi di amici. È un fenomeno che non ci aspettavamo e che ci ha fatto capire che c’è un bisogno reale di teatro, se lo sai proporre nel modo giusto. È una piccola rivoluzione che ci fa sperare per il futuro.»

Oggi i social hanno un ruolo importante nella comunicazione. Tu come li vivi e li utilizzi per la tua attività artistica?

«I social sono uno strumento come tutti gli altri: possono essere usati bene o male. Io ho iniziato a utilizzarli durante il Covid. Non si poteva più andare a teatro e a casa mi annoiavo, come tutti. Così ho cominciato a scrivere poesie e testi in rima, un po’ di satira per divertimento. Alcune emittenti locali mi chiedevano contenuti per riempire gli spazi vuoti, quindi li registravo e glieli mandavo. Dato che li avevo già pronti, li caricavo anche sui social. E da lì è esploso tutto: una poesia su Verona ha superato le 200.000 visualizzazioni perché il Presidente della Regione Luca Zaia l’aveva condivisa. È stato un piccolo momento di notorietà inaspettato.

Da allora ho continuato a usare i social per proporre quello che magari non riesco a portare in teatro, sempre con leggerezza e ironia, raccontando Verona. Ad esempio, scrivo poesie legate all’Hellas o ad altri eventi cittadini. Con la compagnia li usiamo per comunicare, ma senza prenderci troppo sul serio. Per esempio, quest’estate abbiamo fatto 11 serate e per 10 ha piovuto. Così abbiamo creato video ironici: uno per avvisare che le nostre sedie erano “le più asciutte di Verona e provincia” e un altro in cui facevo la pubblicità al tiracqua che usavamo per asciugare il palco. È un modo divertente di coinvolgere il pubblico, che funziona molto bene.»

Avete ottenuto riconoscimenti importanti, come la vittoria al Festival di Pesaro dedicato al teatro amatoriale. Cosa ha significato per voi?

«È stato emozionante oltre ogni aspettativa. Ritrovarci sul palco del Teatro Rossini di Pesaro, davanti a una giuria di studenti che alla fine si è alzata in piedi ad applaudirci, è stato quasi surreale. Siamo arrivati secondi, come era successo anni prima alla Barcaccia, e per me quello è stato un momento simbolico. Ho dedicato il premio a Roberto, piangendo come un bambino. È stato come chiudere un cerchio, unire il passato al presente e sentire che stiamo portando avanti qualcosa di più grande di noi.»

Di recente hai recitato nel film Albatross, accanto a Francesco Centorame. Che differenze trovi tra teatro e cinema?

«Teatro e cinema sono due mondi che si sfiorano, ma che funzionano in maniera completamente diversa. A teatro sei attore, regista, organizzatore, perfino tecnico a volte: sei coinvolto in ogni fase. Sul set, invece, puoi concentrarti solo sulla recitazione, ed è quasi una sensazione di leggerezza, come se potessi finalmente dedicarti solo al tuo personaggio. Albatros è stata la mia prima esperienza importante davanti alla macchina da presa, con nomi di grande livello come Giulio Base e Francesco Centorame. Centorame è un talento straordinario, rappresenta il futuro del cinema italiano. Lavorare con lui è stato stimolante e mi ha dato la voglia di continuare a esplorare questo mondo, pur restando fedele alla mia prima grande passione: il teatro.»

Cosa sogni per La Graticcia nei prossimi anni?

«Il nostro obiettivo è continuare a crescere, ma senza perdere quel legame stretto con Verona e con le persone che ci hanno sostenuto fin dall’inizio. Vogliamo portare i nostri spettacoli fuori città, farci conoscere a livello regionale e magari nazionale, ma senza mai snaturare la nostra identità. Il sogno è che il nostro teatro diventi un luogo di comunità, dove si possa ridere, riflettere e riconoscersi. Un posto in cui chi entra in sala non si sente solo spettatore, ma parte di una storia collettiva che cresce insieme alla compagnia.»

Abbiamo parlato tanto di Roberto Puliero. Per concludere, qual è la cosa più “pulieresca” che riconosci in te e qual è invece quella in cui ti distingui nettamente, in cui per intenderci c’è solo Giovanni Vit?

«In realtà sono due le cose che ho preso da Roberto. La prima è che non capisco nulla di soldi e me ne frego: questo l’ho ereditato in pieno da lui. La seconda, che considero la più bella, è l’idea che il nostro lavoro sia un gioco. Richiede una serietà e uno studio maniacale, certo, ma non riesco a dire “vado a lavorare”. Roberto diceva sempre: “Io vado a fare il paiasso”. Io non vado a fare il paiasso, quello era lui, ma condivido quello spirito. Quando la gente si diverte con me, ci divertiamo tutti insieme. Io mi alzo la mattina e non vedo l’ora che arrivi la sera per andare in scena. Per tre mesi l’anno il Teatro Nuovo di San Michele diventa la nostra casa. Il sabato sera, quando salgo sul palco, mi sento il re di Verona. E già la domenica non vedo l’ora che arrivi il sabato dopo per fare ancora meglio. Questa è l’eredità di Roberto.

Quello che invece sento mio riguarda due aspetti: la regia e la gestione della compagnia. Roberto, a un certo punto, era quasi prigioniero del suo… essere Puliero. Io sono più libero: posso sperimentare, cambiare, provare cose nuove. Inoltre, gestisco la compagnia come se fosse un’azienda, pur essendo un’associazione amatoriale. Ci muoviamo in modo dinamico, stringiamo accordi, creiamo collaborazioni, come quella che ci ha portati a diventare sponsor della Verona Marathon. È un approccio più moderno e avventuroso, che porta la Graticcia a vivere la città a 360 gradi.»

© RIPRODUZIONE RISERVATA