Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!

Con questo grido tu hai cercato di smuovere questa Italia indomita, selvaggia, questo cavallo senza freni, mal guidato, in balìa di se stesso. Questa Italia serva dei propri vizi e delle proprie miserie.

Lungo tutto il tuo poema emerge uno scenario ben nitido e inquietante. Papi licantropi (in veste di pastor lupi rapaci) che sono venuti meno al loro patto matrimoniale con la Chiesa, sposa di Cristo, più attenti all’aspetto patrimoniale. L’Imperatore, colui che dovrebbe garantire la felicità in terra a tutti gli uomini (perché questo in fondo è il senso della politica, renderci felici), assente, distratto o deludente. Ogni comune italiano piagato da divisioni interne, faziosità, lotte intestine. Un mondo fuor dai cardini, come direbbe Amleto, che tu Dante sentivi il dovere di rimettere in sesto.

La politica è un ideale alto. È fatta di sapienza e giustizia. Quello che invece vediamo, muovendoci lungo la penisola, è un mondo fatto di mostri. Un bestiario politico fatto di “brutti porci”, “botoli… ringhiosi”, “volpi sì piene di froda.”

Per non parlare del tuo Inferno popolato da “furbetti”, tangentari (ops, barattieri, diresti tu), diffusori di fake news e manipolatori della comunicazione (ma per te erano solo frodolenti) e molto altro ancora.

Sono passati settecento anni e se apriamo il giornale ci ritroviamo nella tua situazione di allora. Le colpe sono chiare. La tua visione è lucida. Quasi chirurgica. Le cause di tutti i nostri mali potrebbero essere molte.

Per te sono tre:

Superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi.

Le radici luciferine di ogni stortura vengono tutte da qui. Superbia: ritenersi migliori di altri; invidia: mal sopportare che altri possano essere più felici di noi (in quanto noi siamo i migliori); avarizia: depredare con la forza quello che gli altri hanno (in quanto non possono essere più felici, dal momento che noi siamo i migliori).

A volte mi chiedo se questa semplificazione in fondo non sia efficace anche per questi nostri tempi. La tua è una visione chiaramente in chiave spirituale, ma le ripercussioni politiche, ma forse anche antropologiche, sono profonde e attuali.

Tu hai saputo dare un volto a questo nostro mondo malato: la Lupa.

Ed una lupa, che di tutte brame

sembiava carca ne la sua magrezza,

e molte genti fé già viver grame.

La Lupa, se vogliamo scomodare un po’ di latinorum rappresenta la concupiscientia oculorum, ovvero la smania di possesso, l’avidità generata dal desiderare attraverso occhi cupidi e bramosi. La Lupa è un vizio politico, un demone interiore, un morbo sociale. Chiesa e Impero sono contagiati da questa possessione vampiresca. La furia economica diventa germe di un protocapitalismo dissennato e superbo. La Lupa, in quest’ottica, diventa il più terribile dei monoteismi, quello appunto economico.

Tu, Dante, hai saputo leggere i tuoi tempi e i nostri con sguardo penetrante. II tuo sguardo è sempre stato rivolto alle stelle, ma non ha mai rinunciato a denunciare i limiti e le conflittualità di questa aiuola che ci fa tanto feroci.

La Lupa diventa quindi il nostro ego patologico, da curare e correggere. Noi siamo qui. A settecento anni di distanza da te. E quel tuo grido di allora risuona ancora potente. Vivo. Urgente. Noi siamo qui. Forse ancora inconsapevoli. In attesa di essere risvegliati da questa tua parola.