La maternità in Italia mette a dura prova le donne lavoratrici. Se poi queste sono single e/o con background migratorio le cose si complicano. Non c’è fine all’equilibrismo che ogni singolo giorno una donna con prole deve affrontare.

Il rapporto di Save the Children Italia “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2025”, curato da Alessandra Minello, ci parla di una persistenza della segregazione lavorativa femminile verticale e orizzontale. Lo fa attraverso il Mothers’ Index, uno strumento quantitativo elaborato da Save the Children Italia e ISTAT per misurare i diritti e il benessere delle madri a livello regionale in Italia, considerando vari domini come cura, lavoro, rappresentanza, salute e soddisfazione soggettiva.

Abbiamo raggiunto Elisabetta Pesenti, COO e Co-Founder di La Luna del Grano, più di 10 anni di carriera nella consulenza a Bruxelles, in Belgio, e altrettanti prima come libera professionista e poi come imprenditrice. Oggi è mamma di quattro figli, coach professionista e podcaster. Tutto il suo lavoro ha un fil rouge: cambiare la narrazione intorno alla genitorialità, nelle aziende e nelle famiglie.

Elisabetta, secondo la sua esperienza diretta, quali sono le principali difficoltà che le madri incontrano nel conciliare lavoro e famiglia?
«Il mondo del lavoro è in costante evoluzione, ma questo è un periodo storico in cui la dinamicità e la crescita sono ai massimi storici: stare fuori dal mondo del lavoro due anni può significare doversi formare su nuove tecnologie, o non essere più adeguate a un ruolo precedentemente svolto con competenza. 

Podcast “Mamme in Carriera: Back to Work”

In Italia l’età media delle primipare è avanzata, questo significa che si diventa madri dopo molti anni di carriera, durante i quali spesso si raggiungono ruoli di responsabilità e conseguenti orari di lavoro impegnativi. Dopo la maternità le madri hanno difficoltà a tornare produttive come prima, a fare straordinari, a smaltire carichi di lavoro che prima di avere una vita famigliare riuscivano a gestire. Le concause sono molte, alcune culturali, altre strutturali: intanto la cura ricade ancora, nella maggior parte delle famiglie, sulle madri». 

La child penalty

Secondo una simulazione basata su studi della Banca d’Italia, la cosiddetta “child penality” potrebbe ridursi con una maggiore accessibilità e una riduzione dei costi dei servizi per l’infanzia, insieme a politiche di congedo che coinvolgano maggiormente i padri. La penalizzazione all’essere genitori è quell’insieme di svantaggi occupazionali e retributivi (come l’abbandono del lavoro o il passaggio al part-time) subìti dalle donne per conciliare esigenze familiari dopo la nascita di un figlio.

Il rapporto sottolinea che in Italia, la genitorialità è responsabile del 60% della differenza nel tasso di occupazione tra uomini e donne. La penalità si manifesta immediatamente dopo la nascita e persiste nel tempo, essendo più marcata per le lavoratrici che prendono congedi lunghi, hanno salari bassi o sono giovani madri. Ed è più alta nelle regioni con minor disponibilità di servizi per l’infanzia.

Elisabetta Pesenti, secondo il report “Le Equilibriste” le principali cause sono la carenza di servizi adeguati, la mancanza di condivisione dei compiti di cura. Quali strategie pratiche consiglia alle madri per gestire questo contesto e mitigare l’impatto della child penalty sulla loro carriera e stabilità economica?
«Anche laddove la coppia si suddivida i compiti in modo più o meno paritario, la madre resta comunque il primo punto di riferimento per le scuole, per il pediatra, per la babysitter.

La madre ad oggi spende più del doppio del tempo del padre ad occuparsi di casa e bambini, ogni giorno, tra mattina, sera e fine settimana. La penalizzazione ad essere genitore è ad oggi una realtà, che porta 1 donna su 5 a lasciare il lavoro dopo il primo figlio, e 1 su 2 dopo il secondo.

Gli scatti di carriera sono meno e sono meno riconosciuti economicamente, e le conseguenze della child penalty arrivano fino all’età della pensione. E si parla ancora troppo poco dell’impoverimento delle donne nella fase inattiva della vita. Sulle strategie dobbiamo essere noi donne per prime a rivoluzionare il modo di gestire la famiglia, dal momento che oggi il costo della vita è aumentato e noi non solo sentiamo il bisogno di realizzarci professionalmente, ma ne abbiamo tutto il diritto e le possibilità. Questo significa pianificare, se siamo in coppia, le finanze familiari, decidere insieme come condividere i compiti di cura, chiedere aiuto, remunerato o gratuito (per chi ha la fortuna di avere i nonni). Siamo noi per prime a dover smettere di caricare tutto sulle nostre spalle e a non dare per scontato che il carico mentale sia appannaggio del femminile. Ad oggi diamo ancora per scontati troppi automatismi: se il bambino è malato non solo è la madre della stragrande maggioranza dei casi a portare il bambino dal pediatra, ma è la madre a chiamare il pediatra, è sempre la madre a spostare appuntamenti di lavoro o a trovare incastri per andarci, dal pediatra». 

Dalla sua prospettiva, quale ritiene sia la misura di supporto che avrebbe l’impatto più significativo nel rimuovere questi ostacoli e costruire quella “rete” necessaria per le madri lavoratrici in Italia?
«Credo che la rivoluzione culturale a cui stiamo assistendo abbia origine a più livelli: familiare, aziendale, normativo. Ogni pezzetto di questi cambiamenti, ogni piccolo miglioramento ha un impatto. Sicuramente la “forzatura normativa” rappresentata dalla Certificazione UniPdr:125 che abbiamo in Italia ha definito dei criteri specifici per le aziende e ha dato la possibilità di ottenere premialità o avere vantaggi fiscali collegati alla certificazione. Indubbiamente un incentivo per chi, anche solo per ragioni di prestigio, intende dare un segnale di innovazione e cambiamento. Sono molti i supporti che le aziende possono mettere a disposizione delle famiglie, e credo che ognuno abbia un valore perché ogni ecosistema familiare ha necessità diverse. Ciò che è importante ricordare però è che se il cambiamento non avviene anche tra le mura di casa ogni norma o permesso/benefit aziendale lascia il tempo che trova: la madre si troverà impossibilitata ad usufruirne se non c’è una reale condivisione del carico».

Il report parla anche di segregazione orizzontale (la netta divisione di uomini e donne in diversi ambiti lavorativi) e segregazione verticale (che riguarda la minore presenza delle donne in posizioni di potere o ad alto profilo, anche all’interno dei settori). Secondo il suo punto di vista cosa manca in Italia per sensibilizzare di più e meglio su questa forma di discriminazione socialmente accettata?
«L’Italia è un paese meno combattivo di altri (basti guardare all’energia delle manifestazioni in Francia o agli scioperi in altri paesi per ottenere condizioni più eque) ma credo che oggi si sia cominciato davvero a parlare e a sensibilizzare su questi temi. Siamo estremamente in ritardo, siamo il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda molti aspetti della parità di genere, ma ci stiamo pur sempre muovendo, questo è indubbio. Oggi per sensibilizzare meglio dobbiamo parlarne, organizzare eventi, fare rete, creare collaborazioni e smetterla di sentirci in competizione tra noi. Ci sono già interessanti iniziative nelle scuole che hanno l’obiettivo di influire sulla segregazione orizzontale, molte aziende stanno dando segnali forti quanto a un rinnovo delle posizioni apicali o alla possibilità di promozioni significative per le donne, certo è, ancora una volta, che siamo noi donne a doverci proporre, ad avere il coraggio di modificare un sistema familiare che magari abbiamo impostato inconsapevolmente su un modello ricevuto che oggi non è più applicabile». 

Madri con background migratorio, l’aggiunta della complessità

I dati sull’occupazione relativi all’ultimo trimestre del 2024 mostrano un tasso di occupazione per le donne di origine straniera del 48,5%, inferiore rispetto al 53,9% delle donne italiane.

Esiste anche un preoccupante differenziale di genere nel tasso di disoccupazione a sfavore delle donne straniere, particolarmente accentuato per le cittadine non comunitarie. Una percentuale rilevante di donne extra-UE non partecipa affatto al mercato del lavoro, con un tasso di attività inferiore rispetto alle donne di origini italiane o di un Paese UE (il tasso di attività tra i 15 e i 64 anni è pari al 57,8% tra le italiane, al 64% tra le donne di Paesi dell’UE e al 53,1% tra le donne di Paesi non UE).

I settori che tradizionalmente assorbono le maggiori quote di manodopera straniera sono i servizi di cura, la ristorazione, il turismo e l’edilizia. Le lavoratrici di origine straniera rappresentano ancora il 73% delle assistenti familiari regolari, predominando in questo comparto.

Questa forte presenza di donne migranti nei servizi di cura è legata alla persistenza di stereotipi di genere che le relegano in occupazioni ancillari e di basso profilo. Questa dinamica viene analizzata anche attraverso il concetto di global care chains, che descrive i percorsi transnazionali di donne che migrano da Paesi meno avanzati per lavorare come assistenti familiari o baby-sitter in nazioni più ricche, spesso lasciando i propri figli alle cure di parenti o altre lavoratrici migranti.

Ciò crea una divisione internazionale del lavoro riproduttivo e di cura che riflette disuguaglianze globali.

In occasione della Festa della mamma resta urgente parlare delle multiple dimensioni delle disuguaglianze di genere e delle sfide che le madri, in particolare quelle single e quelle con background migratorio, nel tentativo di bilanciare maternità e lavoro in un contesto italiano caratterizzato da un welfare familistico, divari territoriali e persistenti segregazioni nel mercato del lavoro.

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