#FreeAssange
Il fondatore di Wikileaks è al centro di una questione internazionale che molto ha a che fare con la libertà di stampa e l'effettiva democrazia del nostro Occidente.
Il fondatore di Wikileaks è al centro di una questione internazionale che molto ha a che fare con la libertà di stampa e l'effettiva democrazia del nostro Occidente.
Julian Assange è da sempre un argomento divisivo: per alcuni un eroe delle masse, per altri un semplice delinquente. Non ci sono vie di mezzo quando si parla di lui, così come non ce ne sono per WikiLeaks o Edward Snowden. Ognuno ha la propria opinione, la difende con veemenza e non cambia idea. Tutti diritti incontestabili. Almeno per ora.
Divisivo è il concetto di libertà che in Assange trova personificazione: il diritto alla verità, a ottenerla anche con mezzi poco trasparenti, o con l’aiuto di persone che commettono violazioni dei rispettivi codici di condotta. Per estensione, sono la libertà di parola e di stampa a subire un processo in questi giorni, non solo l’attivista australiano.
Il procedimento riguarda l’ammissibilità dell’appello degli avvocati di Assange contro la sentenza del 2022, poi sospesa, che ne permette l’estradizione negli Stati Uniti, dove lo attendono 18 imputazioni e potenzialmente oltre 150 anni di reclusione.
Nel 2010 l’associazione da lui fondata, WikiLeaks, pubblica documenti segreti del Governo statunitense che dimostrano discutibili decisioni e politiche durante le guerre di Afghanistan e Iraq. Tra l’enorme quantità di materiale spicca un video in cui, durante un attacco USA, un elicottero uccide 11 persone. Due delle quali sono giornalisti Reuter.
Nel 2020, sotto l’amministrazione Trump, il dipartimento di giustizia accusa Assange di molteplici reati ai sensi del cosiddetto Espionage Act, una legge del 1917 promulgata per zittire l’opposizione pubblica contraria alla partecipazione statunitense nella Grande Guerra in Europa.
Negli anni, ci sono stati diversi casi di simili accuse. Tra le imputazioni di Assange figura la cospirazione con la “talpa” Chelsea Manning per violare un computer del Pentagono e ottenere file diplomatici e militari segreti. Manning ha visto le accuse ridimensionate dall’allora presidente Obama ed è libera, dopo sette anni di prigione.
Un altro caso noto riguarda la fonte dei cosiddetti Pentagon Papers, Daniel Ellsberg, reo di aver fornito al New York Times una serie di documenti che smascherano le bugie sulla guerra del Vietnam. Anche queste accuse sono poi cadute ma il caso occupa le cronache per diverso tempo.
Recentemente, invece, un ex ufficiale della CIA, Joshua Schulte, è stato condannato a quarant’anni di reclusione per aver passato materiale a WikiLeaks. E ora, si decidono le sorti di Assange e della libertà di un giornalista a raccontare la verità.
Le accuse contro Assange si fondano su una legge di un secolo fa che però negli ultimi anni è stata invocata contro i giornalisti che ottengono informazioni riservate attraverso fonti interne governative. Per un giornalista investigativo si tratta di una relazione privilegiata e fondamentale, che diventa ancor più delicata quando le informazioni riguardano la sicurezza nazionali.
La legge in questione ha particolarità che limitano di fatto la possibilità di difendersi dalle accuse. Non fa riferimento – come possibile giustificazione in deroga – al concetto di “interesse pubblico” che è ammesso perfino da una legge sbagliata come quella italiana sulla diffamazione a mezzo stampa. Chi è imputato non può portare prove circa il materiale ottenuto, non può addurre motivazioni per il suo gesto o portare appunto il superiore interesse della collettività a suo sostegno.
Nei casi contro Ellsberg, WikiLeaks e Snowden i giudici hanno riconosciuto che perfino la sicurezza nazionale di una superpotenza globlale come gli USA non può essere usata sempre e comunque per impedire la divulgazione della verità, che esiste un limite oltre cui deve prevalere il principio del diritto alla verità.
Per Assange queste sentenze non contano. Rappresenta qualcosa di diverso, evidentemente, con buona pace del bavaglio all’interesse pubblico. Se viene estradato, deve affrontare un processo in cui non avrà il diritto di esporre le sue ragioni, in cui le sue argomentazioni saranno silenziate.
E con loro il giornalismo inteso come strumento per informare il pubblico, per far emergere verità scomode, per liberare le coscienze di chi si sente complice delle azioni del suo governo o del suo presidente.
Silenziando Assange, l’intero concetto di giornalismo investigativo subisce un colpo potenzialmente letale. La libertà di stampa – già diventata quasi un’utopia per fricchettoni dopo l’avvento di troll, post-verità e disinformazione pilotata – è a processo insieme a Julian Assange.
Un membro della società civile che tenga minimamente ai suoi diritti e alla sua libertà sa da che parte stare questa volta, al di là della simpatia o antipatia verso l’imputato. Non sono giorni buoni per restare divisi, se c’è un buon motivo per unirsi in una sola voce è per gridare #FreeAssange !
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