Pornografia e solitudine: quando il desiderio salta l’attesa
L’iperaccessibilità della pornografia non racconta solo un eccesso di stimoli, ma la crescente difficoltà a sostenere distanza, frustrazione e tempo dell’incontro nelle relazioni reali.

L’iperaccessibilità della pornografia non racconta solo un eccesso di stimoli, ma la crescente difficoltà a sostenere distanza, frustrazione e tempo dell’incontro nelle relazioni reali.

La pornografia, per la sua natura iperaccessibile e immediata, diventa uno specchio delle difficoltà sempre più diffuse nel sostenere la distanza, l’attesa e la frustrazione che ogni relazione reale comporta. Non si tratta soltanto di un eccesso di stimoli, ma di come il corpo virtuale tende a sostituire l’incontro reale.
Superando facili moralismi, la psicologia è chiamata a restituire dignità affettiva a ciò che spesso appare solo come un comportamento problematico, portando l’attenzione sui vissuti e sulle dinamiche profonde che stanno dietro al consumo di pornografia.
Solo così è possibile aiutare il soggetto a riconnettersi al desiderio che quel sintomo custodisce — il bisogno di essere toccato, visto e accolto da un altro vivo, non da uno schermo.
Dietro l’uso ripetitivo del porno non si cela soltanto la ricerca di eccitazione. In molti casi, soprattutto quando si parla di dipendenza, il soggetto non cerca tanto il piacere quanto la rappresentazione del piacere: l’immagine di un’intimità possibile, prevedibile, sotto controllo.
Il porno offre uno spazio in cui l’altro è sempre disponibile, dove il desiderio non è attraversato da incertezza, vergogna o parola. È un incontro senza vera alterità, un dialogo silenzioso tra l’Io e la propria fantasia.
In condizioni di ritiro, difficoltà o resistenza nelle relazioni corporee, il soggetto non consuma semplicemente immagini sessuali, ma fantasie relazionali: scene di dominio o sottomissione, di fusione, di riconoscimento, di abbandono. In ciascuna di esse si gioca un frammento della propria storia affettiva.
Il porno diventa così un palcoscenico su cui l’inconscio mette in scena tensioni profonde, permettendo al desiderio di esprimersi senza il rischio, e senza il dolore, del contatto reale.
La sessualità rappresentata può avere una funzione sublimatoria: una trasformazione simbolica della pulsione che consente di esplorare e dare forma al desiderio. In questo senso, il porno può funzionare come un laboratorio psichico, una modalità rudimentale di simbolizzazione dell’eros.
Tuttavia, la linea che separa la sublimazione dalla difesa è sottile. Quando la visione pornografica diventa rituale compulsivo, la rappresentazione non favorisce più l’elaborazione del desiderio, ma lo fissa, bloccandone la trasformazione. Il porno si riduce allora a una tecnica di scarica, una difesa contro l’angoscia della mancanza e della relazione.
In questi casi, l’oggetto pornografico assume la funzione di un oggetto transizionale impoverito: offre l’illusione di una presenza che protegge dalla solitudine, ma senza aprire a un reale scambio.
Come direbbe Bion, l’esperienza emotiva non viene trasformata in pensiero, ma evacuata nel corpo attraverso l’eccitazione.
L’altro pornografico non guarda, non risponde, non desidera davvero. È un simulacro che rimanda esclusivamente al desiderio di chi osserva. Eppure, proprio in questa illusione di reciprocità emerge con forza il bisogno di riconoscimento. In questo senso, il porno non si colloca primariamente sul registro del piacere, ma su quello del narcisismo ferito: diventa una risposta alla sensazione di invisibilità, di non essere più scelti, toccati, desiderati.
Da una prospettiva winnicottiana, il porno può essere pensato come uno spazio potenziale fallito: invece di favorire il gioco tra realtà interna ed esterna, lo congela. È un refugium che preserva una fragile continuità del Sé, ma al prezzo di un progressivo impoverimento simbolico.
Parlare di “dipendenza da porno” esclusivamente in termini neurochimici è riduttivo perché rischia di confondere la causa con l’effetto. Il porno non crea il vuoto: lo occupa.
Ciò che trattiene il soggetto non è tanto la dopamina, quanto la possibilità di controllare l’intimità. L’uso ripetitivo non risponde principalmente al bisogno di piacere, ma al bisogno di sicurezza: una relazione senza rischio, un desiderio senza frustrazione. Si tratta, in questo senso, di una dipendenza dal legame immaginario, più che dalla sostanza erotica in sé.
Per questo, il lavoro clinico non può limitarsi all’obiettivo di “smettere di guardare porno”. La questione centrale è comprendere che cosa il porno rappresenti per quel soggetto: quale mancanza, quale bisogno di amore, di controllo, di identità o di rispecchiamento si stia tentando di anestetizzare.
Solo a partire da questa comprensione diventa possibile aprire uno spazio in cui il desiderio possa tornare a essere pensato — e, forse, incontrare davvero un altro.
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