C’è chi ritiene che sia necessario uscire dalla propria zona di comfort per affrontare il cambiamento e non perdere opportunità di crescita.

La prima domanda che possiamo porci è: crescere rispetto a cosa? Non è meglio andare verso se stessi, verso la nostra autenticità, unica e irripetibile?

E, stando alla definizione stretta di zona di comfort, poniamoci anche un’altra domanda: perché dovremmo uscire da una situazione in cui tolleriamo bene ansia e stress, in cui tutto viene percepito come familiare e in cui ci sentiamo a nostro agio? Insomma, dove tutto funziona! Infatti questa sembrerebbe la condizione ideale in cui stare e di fatto lo è. A meno che non sia, in realtà, una situazione di auto-sabotaggio che ci fa avvertire come condizioni ottimali quelle che in realtà non lo sono.

La rana bollita

Vi ricordate il principio della rana bollita di Noam Chomsky? Prendiamo (metaforicamente, ovviamente) una rana e buttiamola nell’acqua bollente; lei salterà fuori con un arco riflesso estremamente efficace. Prendiamo la medesima e mettiamola in una pentola d’acqua a temperatura ambiente e poi scaldiamola a fuoco lento. Nel tempo la rana si adatterà e non si renderà conto del disastro nel quale nuota.

Il punto è proprio questo: ci sono situazioni che sembrano confortevoli e adatte per noi ma che in realtà ci possono portare a una morte più o meno simbolica. Si tratta di un inganno vero e proprio dovuto al fatto che non siamo in grado di avvertire un disagio, un sintomo o non abbiamo le parole per descriverlo. E, inconsapevoli, rimaniamo vincolati dentro ad un perimetro che nel tempo rischia di diventare pericoloso.

Difesa e comfort

Forse vale la pena, quindi, distinguere una situazione di difesa dalla vera e propria zona di comfort. La difesa è complessa se non addirittura talvolta complicata: ci allontana e ci difende da qualcosa di cui abbiamo paura. O perché non la conosciamo o perché pensiamo di non conoscere. E si struttura in modo tale per cui tutto sembra funzionare al meglio anche quando non lo è.

Non sempre, però, è nociva: non è detto che spingersi o insistere per abbattere queste difese sia la scelta giusta in un dato momento, quello per esempio stabilito da un collettivo comune.

Finché non ci accorgiamo che qualcosa nel sistema in cui siamo non va (o non va più bene), non siamo pronti per il vero salto che porta in definitiva al nostro Sè. Si tratta di vedere il sistema di difesa che abbiamo strutturato, di sentire, di accorgerci del disagio che diventa così motore di ricerca verso l’autenticità del nostro essere, a salvarci.

Altrimenti cambiare “perché sì”, perché è giusto migliorarsi sempre in nome di una continua crescita, rischia di diventare l’ennesima ricerca di una felicità stereotipata o una vita che non è la nostra. E quindi si rischia di sbagliare strada con la conseguente strutturazione di nuove difese per tenere a bada l’ansia e il malessere che scatena l’allontanamento da se stessi.

Ci sono però, ed è giusto sottolinearlo, situazioni in cui, invece, si instaura una vera e propria distorsione della realtà condivisa; è il caso, per esempio, del sistema violenza in cui, alla lunga, le parti vittima e carnefice, rischiano drammaticamente di confondersi con conseguenze che riempiono gli spazi di cronaca.

“Il postino” e la comfort zone

Nel 1994 Massimo Troisi ci ha fatto un regalo meraviglioso: “Il postino”, un film in cui veniamo catturati da un’immensa, infinita Poesia. Le immagini, le musiche, gli sguardi, le parole… tutto in questa pellicola, tratta dal libro Il postino di Neruda di Antonio Skàrmeta, apre, ampliandola, la visione del mondo che ci circonda. Come solo il contatto con i sentimenti, la creatività, la Poesia, sanno fare.

Ad un certo punto uno dei protagonisti dice: “Quando la spieghi la poesia diventa banale, meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta delle emozioni che può svelare la poesia a un animo predisposto a comprenderla”.

Nel perimetro di una piccola isola del Sud Italia, Mario Ruoppolo, uno dei protagonisti della semplice storia ricca di complessità, ad un certo punto mal sopporta di fare il pescatore, avverte un disagio fisico legato all’umidità che questo lavoro gli scatena. Non sta bene e decide di cambiare, cogliendo senza indugiare l’occasione di consegnare la posta per il grande poeta cileno, Pablo Neruda, confinato in esilio nell’isola per questioni politiche.

Tra i due nascerà un Incontro sostenuto da un dialogo sempre più ricco, sempre più oltre il visibile. Pur rimanendo sull’isola, Mario e Pablo ampliano i propri orizzonti; l’uno scoprendo le metafore che gli permettono di traghettare al di fuori di sé le proprie immagini interne cariche di emozioni e l’altro riassaporando le medesime metafore rinnovate dall’entusiasmo, contagioso, del primo.

Già, l’entusiasmo, parola greca che significa avere il dio dentro, quella follia che permette di essere creativi. Per gli antichi greci, l’entusiasmo è quella condizione creativa del dio che ci abita. Platone la chiamava la divina follia e la reputava molto più della ragione. Si, proprio lui!

Ma per essere creativi è necessario che l’Io, il nostro Io, l’istanza psichica che corrisponde alla razionalità, venga messa da parte e bisogna che ci lasciamo prendere per mano dalla follia creatrice, fuori da ogni logica e da schemi fino a quel momento seguiti. La ragione, la razionalità, la parola ci permettono poi di intenderci e di condividere questa “creazione” traducendola, per esempio, in sculture, musica, poesia e via dicendo.

Non tutti siamo degli artisti ma tutti abbiamo però la possibilità di venire in contatto con le nostre immagini interne, con le nostre emozioni, passioni e sentimenti; e di poterci sentire così parte di un tutto molto più grande di quei limiti perimetrali che la ragione ci permette di vedere. Forse anche così possiamo conoscere sentire che la passione, seppur impetuosa, non è qualcosa da cui difendersi ma è invece qualcosa che ci spinge verso la nostra dimensione più profonda e più vera, distinguendola dalla violenza.

Mario, quindi, metaforicamente smette di essere un pescatore in senso stretto e diviene un pescatore di imagini interne. Grazie all’incontro con il Poeta (metaforicamente il poeta dentro di sé), con le parole poetiche (le parole per descrivere i sentimenti e l’infinito mondo a cui apparteniamo, senza chiuderle in mere definizioni), sconfina al di fuori di sé (della sua piccola meravigliosa isola), pur non andandosene mai.

Resta e tocca con mano la propria autenticità.

Rimane nella sua dimensione di pescatore ma la trasforma, più che cambiarla, proiettandosi dentro di sé, dentro al proprio mare interno dove riesce a sentire sentimenti, le emozioni e la passione; li vive e non avendone paura, li condivide.

Mario, quindi, non è uscito dalla sua zona di comfort anzi, è andato a ritrovare una dimensione per sé più comoda; è andato a trovare qualcosa che lo facesse stare meglio, senza sfide “ufficiali e chiassose”. Ha avvertito un disagio, non ne è andato in cerca, non è uscito dai confini dell’isola ma ne ha ampliato l’orizzonte attraverso la poesia che già aveva dentro. Dandole spazio ha dato spazio a sé stesso.

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