C’è un filone di storie che non conosce crisi. Sono le storie legate ai serial killer, tradotte in serie televisive, film e romanzi. Senza contare i saggi e i trattati di criminologia che se ne occupano.

L’ultima serie televisiva, tuttavia, ci ha spiazzati come spettatori. E non è piaciuta affatto ai famigliari delle vittime. Mi riferisco alla serie tv Netflix Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, conosciuto come il “mostro di Miwaukee”, città dello Stato americano del Wisconsin. Uno Stato dove, da oltre un secolo e mezzo, non c’è la pena di morte.

La particolarità della serie tv – una fiction di qualità – su Jeffrey Lionel Dahmer (1960-1994) è di avere uno sguardo umano su uno dei più crudeli assassini seriali della storia criminale di tutti i tempi: assassino, necrofilo, cannibale, violentatore. Le sue vittime erano giovani omosessuali afroamericani o asiatici, mentre lui – ucciso in carcere da un compagno di detenzione – era un bianco.

L’aspetto etnico è importante. La serie tv su Dahmer ci dice chiaramente che se il serial killer fosse stato afroamericano, oppure se le vittime fossero state di carnagione chiara, il giovane Jeffrey sarebbe stato fermato prima. E molte vittime sarebbero state salvate.

Un’analisi psicologica di Dahmer – attraverso la narrazione restituita dalla serie tv di Netflix – ci restituisce prima un bambino, poi un ragazzino e infine un giovane adulto in tensione tra l’essere una persona fragile e l’essere un “mostro”. Direi che il merito di questa serie televisiva è di portarci accanto alla persona Jeffrey Lionel, senza indugiare negli aspetti violenti e macrabi dei riti di un serial killer; e di non giudicare, limitandosi a raccontare i fatti.

L’arresto di Jeffrey Lionel Dahmer, il serial killer e cannibale di Milwaukee (Stati Uniti)

Il ruolo dei media nel rappresentare il crimine

I media tendono a giudicare, anche senza dichiararlo, chi commette un reato. Se poi il protagonista è un serial killer, il giudizio si fa ancor più netto, deciso, severo. Le narrazioni dei media, ovviamente, dipendono da quanto raccontano la polizia e i magistrati incaricati delle indagini. Vi è comunque un interesse di parte – quello degli inquirenti – nell’imporre la propria storia.

La severità con cui i giudizi dei media sono espressi – con articoli, dirette televisive, servizi audio e video – dipende certo dalla gravità dei reati attribuiti alla persona arrestata. Tuttavia, dipende anche dalla reputazione che quella persona ha; dal suo “potere” nei confronti dei media e della pubblica opinione.

Ci troviamo, così, ad assistere a una rappresentazione criminalizzante e spinta all’estremo in alcuni casi, come accade per i “rave party”. Mentre situazioni non meno pericolose, non meno devianti, non meno criminali – come la diffusione di cocaina in alcuni rispettabili ambienti – sono raccontate senza enfasi, senza allarme sociale e spesso non sono neppure narrate.

È quindi un’operazione culturale interessante quella della serie tv su Dahmer. Il tentativo di “umanizzare il mostro”, si badi bene, non mira a giustificare o a perdonare un assassino crudele, che non ha dato scampo alle sue vittime. L’obiettivo è di portarci a capire che Jeffrey Lionel Dahmer poteva certo avere un qualche tipo di patologia fisica o psicologica, ma era comunque un essere umano. E quanto tale ci cammina accanto, e ci inquieta ancor più perché non sappiamo cosa l’abbia spinto a diventare un serial killer.

La criminologia, come spiega la psicologa Laura Baccaro, ha individuato caratteristiche e cause della figura del serial killer. È vero tuttavia che ciascuna storia ha sue particolarità. Per questo la serie tv su Dahmer, proposta da Netflix (su cui c’è anche la docuserie sulla vicenda), ha una marcia in più che la distingue da altre narrazioni sulle gesta violente, orribili, inquietanti di serial killer più o meno noti. Ci restituisce la figura umana del serial killer. E ci costringe, di conseguenza, a riflettere anche su tutto ciò – ambiente familiare e contesto sociale – che ha reso possibile la costruzione di un assassino seriale.

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