Portare a teatro la forma narrativa delle serie TV, con episodi mensili, abbonamento e possibilità di “recuperare le puntate”. Una sfida decisamente inusuale, che viene portata a Verona da un artista come Andrea Castelletti, attore, regista e direttore artistico del Teatro degli Orti (già Modus). Con Il pagliaccio, spettacolo a episodi di e con Castelletti e la direzione scenica di Laura Gambarin, prende vita un esperimento teatrale pionieristico che si estenderà nel corso dell’intera stagione: otto episodi, per un totale di oltre dieci ore di spettacolo (repliche escluse), da inizio stagione, ottobre, fino alla sua conclusione, a maggio.

Il primo appuntamento è andato in scena mercoledì 15 ottobre, seguito dalle repliche di ieri sera. Le prossime repliche sono in programma lunedì 20 e martedì 21 ottobre, mentre il 5 novembre alle 21 debutterà anche il secondo episodio, replicato poi nei giorni successivi con orari diversificati per permettere a tutti di “mettersi in pari” con la storia. Una modalità volutamente flessibile, che imita a suo modo la libertà dello streaming ma che conserva la verità e l’immediatezza del teatro dal vivo.

Castelletti, come nasce l’idea di portare a teatro un format da serie, con episodi e appuntamenti mensili, proprio come accade sulle piattaforme digitali?

«Nasce da un pensiero che mi accompagna da tempo: se il pubblico oggi ama le serie, se attende con curiosità il nuovo episodio di un racconto, perché non provare a farlo vivere anche a teatro? Ma con una differenza sostanziale: qui non c’è uno schermo. Qui, al contrario, ci sono i corpi, la voce, la presenza. Il teatro, in fondo, è proprio nato come racconto seriale: i miti omerici si tramandavano in più serate e le storie si srotolavano nel tempo. Mi piaceva l’idea di riprendere quell’origine antica e farla dialogare con l’oggi, con i linguaggi e le abitudini di chi vive in un mondo digitale. È un modo per dire che il teatro può essere moderno senza rinnegare se stesso».

Ha definito “Il pagliaccio” una piccola provocazione. Cosa vuoi mettere in discussione con questo progetto?

«È una provocazione chiara. Vogliamo dire che il teatro è ancora un’alternativa. In un’epoca in cui tutto passa attraverso gli schermi — lavoro, studio, sport, intrattenimento — il teatro rimane uno dei pochi luoghi in cui ci si incontra davvero. Lo spettacolo è una dichiarazione d’amore per questa forma d’arte, ma anche una sfida: dimostrare che possiamo intrattenere, emozionare e far riflettere al pari delle piattaforme digitali. Non vogliamo contrapporci al mondo contemporaneo, ma convivere con esso in modo creativo. E soprattutto ricordare che la realtà, quella fatta di respiri e sguardi, esiste ancora».

La storia è ambientata nella Verona degli anni ’90, una città senza internet e senza social. Perché questa scelta?

«Perché è un tempo di confine, a cavallo tra due mondi. Gli anni ’90 sono ancora un’epoca in cui le persone si guardano negli occhi, si incontrano per strada, fanno la fila davanti a una cabina per telefonare. Raccontare quella Verona significa anche ricordare un modo diverso di stare insieme, di innamorarsi, di cercare le cose. Il protagonista de Il pagliaccio è un aspirante attore che incontra una ragazza tra gli arcovoli dell’Arena, e da lì comincia un viaggio che cambierà la vita di entrambi. È una storia semplice, ma piena di nostalgia e di ironia, che parla del coraggio di restare umani in un tempo che corre troppo veloce».

Otto episodi, dieci ore complessive: una sfida enorme anche per chi recita. Come si è preparato e che cosa spera resti al pubblico alla fine di questo lungo viaggio?

Andrea Castelletti ne “Il pagliaccio”

«Mi sono preparato come si fa per una maratona. Ogni episodio è un frammento autonomo ma anche parte di un disegno più grande. Il testo è già tutto scritto, ma poi per ogni episodio c’è una preparazione specifica. Abbiamo lavorato molto sulla direzione scenica, sull’essenzialità dei gesti e sulla parola, che deve tenere in equilibrio ritmo, ironia e malinconia. È un progetto che richiede continuità e ascolto, non solo da parte mia ma anche del pubblico. Mi piacerebbe che chi segue la serie si sentisse parte di una piccola comunità, con il desiderio di scoprire come va avanti la storia. Alla fine spero resti quella sensazione di aver vissuto qualcosa di unico, irripetibile, come un appuntamento che si aspetta ogni mese con affetto».

Quest’anno Modus cambia nome e diventa “Teatro degli Orti”. Cosa rappresenta per voi questo passaggio?

«In realtà è un ritorno alle origini. Quando abbiamo aperto lo spazio nel 2018, il nome completo era già “Teatro Modus – Teatro degli Orti”. Poi, negli anni, ci siamo abituati a usare solo Modus, anche perché le attività si erano molto ampliate: non solo teatro, ma anche musica, cinema, incontri, dibattiti. Dopo questo percorso abbiamo sentito l’esigenza di tornare al nucleo, alla parola “teatro”, e di restituire identità al luogo in cui siamo nati. Il nome “degli Orti” è anche un omaggio al quartiere di Orti di Spagna, che ci ha accolti fin dall’inizio e ci rappresenta nella sua semplicità, nella sua umanità. Vogliamo che questo spazio sia un orto di idee, un luogo in cui seminare cultura e farla crescere insieme al pubblico».

Come si presenta la nuova stagione del Teatro degli Orti e quali temi vi stanno più a cuore quest’anno?

«Abbiamo costruito una stagione ricchissima, con più di cento appuntamenti tra ottobre e maggio. Oltre a Il pagliaccio, ci sono tanti percorsi paralleli: spettacoli sul teatro brillante, la poesia, l’arte, la figura della donna. Abbiamo pensato anche a un nuovo format, Via dei Matti, 37100, una sorta di talk teatrale condotto da Massimo Totola, ispirato ai racconti di Renzo Segala, che parla di Verona in modo ironico e poetico. E poi arrivano ospiti a dir poco importanti come Ottavia Piccolo, Corrado Tedeschi, Matteo Belli, Tindaro Granata. C’è una grande voglia di mescolare linguaggi, di alternare leggerezza e riflessione, comicità e impegno civile. Il filo conduttore è il desiderio di portare in scena storie vere, vicine alle persone».

Dopo tanti anni di lavoro, il vostro teatro è diventato un punto di riferimento per la scena indipendente veronese. Che bilancio fai di questo percorso e quali sogni hai ancora nel cassetto?

«Il bilancio è positivo, e soprattutto umano. In questi anni abbiamo visto nascere una comunità intorno al teatro: spettatori affezionati, giovani artisti, collaboratori che credono nel progetto. Abbiamo superato la pandemia, che ci ha messi alla prova, ma ne siamo usciti più consapevoli. Oggi contiamo oltre 120 serate a stagione e una media di 8-10mila spettatori l’anno, numeri importanti per una sala indipendente come la nostra. Ma il sogno resta quello di portare a teatro le nuove generazioni. Abbiamo avviato una convenzione con l’Esu per permettere agli studenti di entrare a 5 euro, e con l’iniziativa “Happy Hour a teatro” i ragazzi under 30 possono assistere gratis agli spettacoli con lo scontrino dell’aperitivo nei locali di San Zeno. È un modo simpatico per dire: venite, scoprite che il teatro non è un luogo polveroso, ma una casa che accoglie. E che, a volte, può ancora farvi battere il cuore più di uno schermo».

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