Fast fashion: il conto nascosto della moda
Il costo ambientale e le possibili alternative a una filiera tessile da ripensare per poter essere sostenibile. Se n'è parlato in un talk all'interno di Festambiente 2025.

Il costo ambientale e le possibili alternative a una filiera tessile da ripensare per poter essere sostenibile. Se n'è parlato in un talk all'interno di Festambiente 2025.

Il fast fashion è diventato uno dei fenomeni più discussi nel mondo della moda contemporanea, suscitando dibattiti accesi su sostenibilità, impatto ambientale e condizioni di lavoro. Un argomento di cui si è parlato anche nel corso delle intense giornate di Festambiente 2025, il Festival di Legambiente Verona.
Il talk dedicato al fast fashion e alle sue conseguenze, ha visto tre voci diverse – scienza, comunicazione e imprenditoria – affrontare un tema ormai sempre più rilevante: il fast fashion non è solo una questione di stile. È una filiera che consuma risorse, produce rifiuti e impone un ritmo che si riflette nei nostri armadi. Tre voci hanno messo a fuoco il quadro: Nicola Frison (Università di Verona) sui numeri ambientali, Elisa Cozzarini (La Nuova Ecologia, per Legambiente) sul ruolo della comunicazione, Niccolò Cipriani (Rifò) sulle alternative d’impresa.
«Il fast fashion non è una novità: la prima volta viene citato sul New York Times nel 1989 con l’arrivo di Zara a New York», ricorda Elisa Cozzarini. La differenza oggi è l’accelerazione: «La vendita online ha spinto tantissimo questa moda usa e getta, i prezzi sono crollati», con marchi ultra-low cost che hanno abbassato ulteriormente l’asticella.
I dati, portati da Nicola Frison, sono difficili da ignorare: «Gli europei consumano circa 26 kg di prodotto tessile all’anno e di questi 26 chili, 16 per persona diventano rifiuto. A livello globale circa l’1% viene effettivamente riciclato in nuovi prodotti». La materia prima, in larga parte, è plastica: «Il 68% è sintetico», ha ricordato Cozzarini, e persino le fibre naturali «hanno un impatto: una T-shirt di cotone richiede circa 2,7 m³ d’acqua dolce».
L’impronta continua anche in casa: «Un lavaggio può scaricare in fognatura circa 700.000 microfibre», spiega Frison. Gli impianti di depurazione «arrivano tranquillamente al 98% di rimozione», ma «nulla si crea, nulla si distrugge: le microplastiche vanno a finire nei fanghi di depurazione», dove serve una gestione rigorosa. Da Bruxelles intanto arrivano indirizzi precisi: «C’è un target di ridurre almeno del 30% al 2030 i rilasci di microplastiche», e con la nuova direttiva sulle acque reflue «le microplastiche entrano tra gli inquinanti emergenti da monitorare». Punto chiave del pacchetto normativo è l’EPR: «Il produttore stesso è responsabile anche nel fine vita dello stesso prodotto». Ma prima ancora delle leggi, ricorda Frison, «senza monitoraggio non si possono prendere azioni»: servono dati solidi su quantità e destinazioni dei rifiuti.
Parlare di moda sostenibile vuol dire parlare di cultura quotidiana. «I nostri gesti hanno un impatto», dice Cozzarini. L’informazione è il primo punto: «Non bastano gli articoli di giornale: ci vogliono tante strategie di comunicazione», anche sui social «fatti bene, con un’etica e dei valori». Il messaggio, però, deve restare concreto: «Non mettiamo addosso spazzatura: acquistando certi prodotti produciamo rifiuto nel momento stesso in cui li compriamo».
Comunicare bene significa anche restituire tempo alle scelte. «Un tempo il “vestito” era un momento, non un clic», osserva la giornalista. E il lavoro educativo non può essere delegato solo agli influencer: «Deve nascere dalla scuola, dall’educazione civica», incalza Cipriani, per costruire «un giubbotto antiproiettile per le generazioni future». La direzione è chiara: «Partire dalle persone più sensibili» e «dare una via d’uscita», indicando alternative pratiche – riparare, scambiare, scegliere capi che durano – invece di fermarsi alle denunce.
Rifò è una di quelle vie d’uscita. «Ci occupiamo di moda circolare dal novembre 2017», racconta Cipriani: si parte da scarti e capi post-consumer, si rigenera meccanicamente la fibra e si torna a filato e capo finito. Ma non tutto è riciclabile: «Quello che è riciclabile deve essere monomaterico: almeno il 95% di un solo materiale, con elastan massimo 5%. Se è 50% lana e 50% acrilico, purtroppo no». E attenzione alla retorica green: «Non è detto che “riciclato = sostenibile”. No: bisogna fare un passo in più», con analisi del ciclo di vita, perché «riciclare ha comunque un impatto». C’è anche un limite fisico: «L’economia circolare non è infinita: la fibra si accorcia a ogni ciclo».
Il modello d’impresa cambia ritmo in due punti. Il primo è la prossimità: «Produciamo al massimo a 30 km dal nostro ufficio», piccole serie, più controllo, meno trasporto. Il secondo è la prevendita: «Tre settimane per raccogliere gli ordini e cinque per produrre», con uno sconto iniziale al posto dei saldi: «Non facciamo Black Friday». Risultato? «Faccio una produzione ad hoc per chi ha comprato», tagliando invenduto e sovrapproduzione; oggi «la prevendita è su un 55-60%» delle vendite.
Poi c’è il tema del prezzo, affrontato senza giri di parole: «Comprare una T-shirt a 5 euro vuol dire che una persona è stata pagata 20 centesimi l’ora», oppure che la materia prima è scadente. «È il prezzo che ci frega», dice Cipriani: meglio comprare meno a pari budget, spostando risorse su qualità e lavoro dignitoso. Anche lo sguardo può cambiare: «In Toscana si dice ancora “il cappotto”, perché prima ce n’era uno». E la chiosa vale una linea editoriale: «Andare avanti è anche tornare indietro».
In sintesi. Le norme (EPR, raccolta differenziata, monitoraggio), i numeri (consumi, rifiuti, microfibre), le parole (educazione, social consapevoli) e le pratiche d’impresa (prossimità, prevendita, design monomateriale) disegnano una via d’uscita realistica. L’abito più sostenibile resta quello che usiamo più a lungo; il resto – riciclo, etichette, tecnologie – è importante, ma viene dopo una scelta che possiamo fare oggi, davanti a ogni carrello.

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