«Alzare il volume»: è l’immagine che Jacopo Buffolo – padovano, classe 1995, assessore alle Politiche giovanili e alla Memoria storica del Comune di Verona – usa per descrivere ciò che serve a una città quando si parla di giovani, migranti e diritti. Gli abbiamo chiesto di fare il punto sui nodi che l’amministrazione gli ha affidato tre anni fa.

Assessore, lei osserva che, quando parliamo di migrazioni, tendiamo a incollare un’etichetta che dovrebbe essere solo provvisoria. Quali sono oggi gli ostacoli principali per i giovani che cercano di migliorare la propria condizione?

«Oggi per un giovane è sempre più difficile non solo confermare la situazione ereditata, ma anche migliorarla; esistono sistemi di discriminazione a bassa intensità: gli istituti professionali offrono opportunità diverse da quelle di un liceo, e potremmo aprire parentesi lunghissime. In generale è più facile mantenere la posizione sociale che riscattarla, perché l’ascensore sociale non garantisce più le stesse chance.»

Quindi la mobilità sociale è ormai un’eccezione?

«Tendenzialmente sì: è più facile che tutto resti dov’è, anziché assistere a reali chance di ascesa.»

Negli anni Novanta bastava “impegnarsi” per salire un gradino. Oggi quale leva potrebbe riattivare l’ascensore sociale?

«Il primo passo è la consapevolezza collettiva. Spesso ci teniamo dentro la delusione mentre la società continua a venderci il mito: se lavori 87 ore al giorno diventi Bill Gates. Non è vero. Non diventi Elon Musk solo perché scrivi un certo codice: non è generalizzabile. Dobbiamo uscire dalla bugia del “con l’impegno tutto è possibile”. La volontà è fondamentale, ma gli indicatori dicono che cambiare condizione è sempre più difficile, soprattutto in Occidente. Serve rivendicare il diritto a un futuro diverso, partecipando alla sua costruzione.»

La Costituzione invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono ai meritevoli di emergere. Ma servono anche “occasioni” favorevoli, come lei osserva.

«Esatto: bisogna trovarsi nelle condizioni giuste. Musk ha saputo intercettare un bisogno, ma la sua impresa aerospaziale ha ricevuto oltre 15 miliardi di dollari di finanziamenti statali. Senza quelle leve, non saremmo qui a parlarne.»

Venendo al suo assessorato: fra cinque anni cosa vorrebbe aver realizzato?

«Due cose “banalissime” che indicano se una città è aperta e funzionante. Primo: accessibilità ai servizi. Spesso esistono, ma li conosce solo chi ha un canale privilegiato all’informazione. Secondo: un linguaggio davvero inclusivo. Troppo spesso quello burocratico è respingente e, se mancano requisiti specifici, scatta una violenza psicologica.»

Quali azioni concrete state mettendo in campo?

«Stiamo lavorando sul sito comunale dedicato alla tutela dei diritti LGBT+ e, da un anno e mezzo, al Forum delle Cittadinanze. Verona ha un terzo settore robusto, ma il mondo giovanile è poco infrastrutturato: spesso si attiva in forma associativa o imprenditoriale. Lo stesso vale per chi ha un background migratorio: renderli visibili significa riconoscerne la dignità e offrire strumenti di accesso alle opportunità.»

Negli ultimi tre anni sono nati molti festival, mentre per un decennio eventi come Interzona o Urban Festival chiudevano i battenti. Che cosa è cambiato?

«Stiamo supportando un “mondo” che vuole essere protagonista, non semplice consumatore. Con la riapertura del centro Link abbiamo ritrovato sale prova e band di liceali. Certi trend cambiano, altre cose restano ma non si raccontano. Se però queste realtà si organizzano – pensiamo ai festival giovanili nati di recente – iniziano a spostare qualcosa sia socialmente sia economicamente.»

Eppure la percezione è che la vita culturale veronese sia spenta.

«Proprio sull’Arena leggevo valutazioni positive sulla città, ma basse sulla vita sociale, complice una popolazione anziana. Vogliamo lasciare una Verona in cui i giovani, se dinamici, possano costruire opportunità grazie a un’amministrazione capace di ascoltare. L’anagrafe vicina aiuta: siamo interlocutori accessibili con cui stringere alleanze.»

Da Interzona a Eataly: perché non trasformare l’ex magazzino degli ex Macelli in un polo culturale gestito dai giovani?

Foto dal profilo Facebook di Jacopo Buffolo

«Verona ha fame di spazi. La vicenda Eataly è aperta: puntare solo sul profitto non ha premiato. Ascoltare i bisogni della città non sempre restituisce un ritorno economico immediato, ma può attivare ecosistemi e innovazione. Alcune associazioni hanno già fatto il salto di qualità: qualcosa si muove.»

Penso al Mura Festival o a Veronetta pedonalizzata la domenica. I giovani sembrano in grado di superare i nostri pregiudizi di quartiere. Come si “alza il volume” di queste energie?

«È la vera difficoltà: dare voce e sostegno a volontariato, rappresentanza studentesca, campi scout. In passato ricevevano poca attenzione. Ora, se si dà loro fiducia, il ritorno in innovazione è altissimo. Bastione San Francesco, Forte Sofia, To The Golo alle Golosine: se funzionano è perché mancava qualcosa. Brescia, Vicenza, Padova attraggono artisti di livello; Verona ora sta costruendo una scena dal basso. Spesso non servono grandi budget, basta la volontà di fare insieme.»

Lei parla di “alzare il volume” nel discorso pubblico: in Italia si enfatizzano baby-gang e bullismo, mentre faticano a emergere le storie positive. Perché?

«Perché lo spazio per ciò che non funziona è illimitato. I ragazzi degli anni Sessanta hanno vissuti rimossi che pesano sulle responsabilità trasmesse alle generazioni successive.»

C’è molto paternalismo nel racconto sui giovani?

«Sì, e dobbiamo esserne consapevoli: rischiamo di perdere l’innovazione che portano. Dipingerli tutti come “maranza” o baby-gang è dannoso. Serve lavorare sulle relazioni, sul consenso, sull’educazione sessuo-affettiva.»

La politica sembra puntare più sulla repressione che sulla prevenzione.

«E non costruisce una società migliore, dove ciascuno è consapevole di poter prevaricare o subire prevaricazioni.»

I giovani possono contrastare la normalizzazione di razzismo e maschilismo?

«Oggi esistono sempre meno “luoghi di massa” che creano appartenenza. Bisogna ripensare gli strumenti di partecipazione democratica: alle ultime elezioni ha votato il 50 %, al referendum il 30 %. Manca l’idea di bene comune.»

La scuola può colmare questo vuoto?

«Scuole ed enti di formazione sono forse gli ultimi luoghi di massa dove si può stimolare pensiero critico e cittadinanza attiva: da lì emergono contraddizioni che contaminano altri spazi.»

Foto dal profilo Facebook di Jacopo Buffolo

Sul fronte degli spazi pubblici, l’opposizione ha criticato la concessione della Gran Guardia alla comunità islamica per il Ramadan. Che cosa risponde?

«Verona soffre la carenza di sale per le associazioni e, di conseguenza, la legittimazione di chi può usarle. Tutti i cittadini godono degli stessi diritti civili. Se una comunità religiosa rispetta finalità e costi previsti, perché negare? In passato la stessa celebrazione si è svolta in piazza Cittadella. Con il Ramadan in stagione fredda serviva uno spazio chiuso: è dovere di una città rispondere ai bisogni dei suoi cittadini. Dispiace leggere falsità da figure istituzionali, quando basta consultare gli atti.»

Riguardo alle fragilità, è ancora aperta l’inchiesta sul caso Diarra. Come evitare la disumanizzazione?

«Le fragilità vanno sostenute da servizi adeguati. Dopo trent’anni il sistema d’accoglienza è ancora emergenziale: va ripensato, tenendo conto delle vulnerabilità e della storia plurale del Paese. Spaventarsi per un fenomeno che ci ha sempre accompagnato significa ignorare la nostra identità. E la soluzione non sono gli accordi con Libia o Albania: serve un cambio di linguaggio.»

L’idea di Stato-nazione, d’altronde, è recente.

«Ed è spesso riduttiva. È incredibile che l’Europa di fine Ottocento, capace di enorme sviluppo tecnologico, abbia elaborato una visione così povera della propria complessità.»

Quale alternativa propone?

«Il modello individualista e capitalista genera una crisi d’identità. O la si risolve col nazionalismo, o con le relazioni costruite localmente. Dobbiamo interrogarci sulle identità multiple che abitiamo: non ne possediamo solo una. La mostra a Castelvecchio vuole farci riflettere anche su questo, attraverso uno spaccato di chi eravamo, ricordando quanto sia parziale la narrazione di Verona come “solo” città romana e scaligera: siamo molto di più e non possiamo lasciare che una storia semplificata ci sottragga pezzi preziosi.»

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