Povertà e sanità. Nonostante l’attenzione del pubblico sia in questo periodo rivolta inevitabilmente altrove (elezioni, guerra in Ucraina, crisi energetica), rimangono temi che devono stare al centro dell’interesse giornalistico, perché purtroppo riguardano ampie fette della popolazione italiana, e non solo. Fare giornalismo sociale, però, è oggi più che mai un’impresa, perché dal punto di vista editoriale rende pochissimo e non garantisce un adeguato sostegno economico alle attività dell’azienda-giornale.

Nonostante questo, però, ci sono realtà che insistono nel fornire al lettore questa tipologia di informazioni, non dandosi per vinte. Ne parliamo con l’inviato di Avvenire Paolo Lambruschi, che in oltre trent’anni di attività si è occupato prevalentemente di vicende di immigrazione e traffico di esseri umani.

Paolo Lambruschi

Lambruschi, perché è ancora necessario parlare di “sociale” ai lettori oggi?

«Perché significa fare un tuffo drammatico nella realtà. Veniamo da due anni di pandemia, una pandemia sociale, anche se abbiamo parlato soprattutto di pandemia sanitaria. Una situazione che ha fatto emergere tutta la fragilità della nostra società: il dramma del precariato, dei giovani, e delle tante persone italiane e straniere che prima vivevano già in equilibrio incerto, magari raggiunto con difficoltà dopo la crisi del 2008, e che purtroppo ora è di nuovo precipitato.»

Il tutto mentre c’è anche chi, nello stesso periodo, si è arricchito molto…

«Un dato emerso in questo periodo di pandemia è che chi prima era ricco è diventato in questi anni scandalosamente ricco. Sono soprattutto gli uomini dell’economia dei social, delle grandi multinazionali del farmaco e via dicendo. In questo momento si stanno arricchendo gli industriali del settore delle armi. Ecco, il lettore si deve informare sempre di più, perché l’informazione è necessaria per provare a raggiungere la giustizia sociale.»

A proposito di giustizia sociale, la sanità è stata messa a dura prova in questi ultimi due anni. Quali considerazioni possiamo fare?

«In Veneto c’è un modello sanitario che da cittadino lombardo invidio. Qui c’è ancora una medicina del territorio, che noi invece abbiamo smantellato 25 anni fa. Il sistema lombardo è irreversibile. Si è proceduto alla creazione di grandi ospedali che però hanno perso il parametro di riferimento, che è il benessere del cittadino e l’efficienza. Se si va al pronto soccorso alle 11 di mattina oggi a Milano si rischia di essere visitati all’una di notte. Adesso stiamo aspettando delle riforme, ma in realtà soldi da investire nella sanità pubblica non si vedono così come non si percepisce la volontà politica di cambiare davvero la situazione.»

La pandemia ha colpito molte persone, non sempre dal punto di vista prettamente sanitario…

«Questa pandemia ha fatto emergere proprio la stretta relazione fra povertà materiale e povertà linguistica e culturale. Io vivo a Corsico, periferia industriale di Milano. Oggi non ci sono più le fabbriche di un tempo, che sono state sostituite dai centri commerciali. E ci sono delle amministrazioni comunali che tolgono la mensa a scuola a quei ragazzini i cui genitori non riescono a pagare la retta. Action AID ha riportato i dati 2021 sulla povertà alimentare. Ebbene, solo nel mio piccolo paese ci sono ben 1.600 persone che non riescono a mangiare due pasti tutti i giorni. Pensate quale dato possiamo avere su scala nazionale.»

A tutto questo si aggiunge un problema di disagio mentale?

«Collaboro con la Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale italiana e con loro è emerso che il problema della salute mentale è quello in assoluto più dimenticato nel nostro Paese. Questa pandemia ci ha lasciato più di un milione di persone con problemi di natura mentale. Save the Children ha denunciato che solo a Genova, durante la pandemia, c’erano centinaia di ragazzini che chiamavano per raccontare i loro problemi e cercare aiuto.

Questo trauma, purtroppo, non è passato con il ritorno alla socialità di questi ultimi tempi. Ce lo portiamo ancora dietro e non sappiamo bene cosa fare per affrontarlo perché non sempre ci sono gli strumenti adatti. Nel nostro ricco nord ci sono gli assistenti sociali, ma gli operatori di salute mentale diminuiscono sempre più, soprattutto se ci spostiamo verso sud. Il primario di psichiatria dell’ospedale di Palermo mi hanno detto qualche tempo fa che in Sicilia hanno chiuso tutti i reparti di salute mentale. Chi aveva un problema di quel tipo sull’isola doveva rivolgersi in Calabria, dove peraltro la situazione non è rosea.»

La guerra russo-ucraina ha riportato le ombre sul futuro delle persone vulnerabili e non solo. Che ne pensa?

«Si prevede che ci sarà sempre maggiore difficoltà per pagare le bollette o, più semplicemente, per mangiare. C’è gente che già adesso deve decidere se curarsi o nutrirsi e sono quasi sempre gli anziani. Questi temi devono trovare sempre più cittadinanza sui giornali insieme a tutti gli altri problemi e a quello che succede nel mondo. Anche perché poi è tutto collegato e accanto al problema delle tonnellate di grano che non vengono inviate in Africa e alla conseguente carestia in quelle zone si svilupperà di nuovo il tema dei flussi migratori, che ricominceranno a intensificarsi, si ritornerà ad avere paura dell’invasione e, abbinata alla paura di diventare poveri, ci porterà, come società, a chiuderci ancor di più.»

Sui flussi migratori va tenuto sempre acceso un faro, anche perché in realtà non si sono mai veramente interrotti, vero?

«No, anzi. Ma per noi la cosa che interessa, purtroppo, è solo quella delle aziende che hanno bisogno di manodopera a basso costo e non la trovano. A questo proposito va detto che la legge che regola l’immigrazione in Italia è penalizzante, assurda ed emergenziale. Sarebbe un bene aggiornarla perché abbiamo bisogno di farlo: facciamo entrare regolarmente le persone che arrivano dall’Africa, dall’Asia, dall’America. Vengono dove serve, in quella che ormai è diventata una società vecchia, perché i nostri giovani vanno all’estero per trovare dei lavori più remunerativi e condizioni di vita più stabili. Se non cambiamo rischiamo di non crescere e rimanere fermi. E generare un circuito di povertà.»

Lei però, al di là dei “barconi”, ha raccontato, come inviato di Avvenire, ciò che avviene a queste persone ben prima di riuscire ad arrivare al mar Mediterraneo…

«Si, mi sono spesso occupato del pregresso, dei viaggi della speranza dall’Etiopia alla Libia e in particolare di ciò che è avvenuto e avviene tutt’ora nelle prigioni libiche. Purtroppo quello che non ho potuto ancora raccontare è chi si cela davvero dietro queste organizzazioni criminali, che hanno sì i conti correnti negli Emirati Arabi, ma poi per il resto si sa poco o nulla. Sappiamo solo che gestiscono il traffico umano del continente africano, un traffico sempre più potente.»

Quali sono le peripezie che devono affrontare queste persone?

«Innanzitutto forse non a tutti è chiaro che spostarsi anche in Africa costa molto. Solo per fare un esempio raggiungere il Sudan dall’Etiopia costa circa 1.200 dollari. Chi sta morendo di fame dove li trova? Poi per arrivare in Libia vengono richiesti altri 2-3mila dollari e poi quasi sempre si finisce nelle grinfie dei miliziani libici, a cui, per liberarsi, occorre consegnare almeno altri 1.500 dollari. E tutto questo avviene lontano dai riflettori, in un mondo non illuminato dai social, dove avvengono tragedie immani. La gente è ridotta in schiavitù, a volte utilizzata per il traffico di organi e in generale assolutamente dimenticata. Ho scoperto che l’ultima “moda” per liberarsi degli immigrati che non riescono a pagare queste cifre da parte delle organizzazioni criminali è quella di portarli al limite del deserto del Sahara. Dove, nel tentativo di ritornare a casa, quasi sempre spariscono. E quello che mi ha inorridito più di tutti è che i mezzi che vengono usati per questi spostamenti spesso arrivano dall’Italia e dall’Europa, nell’ambito degli accordi fatti con lo Stato libico. Ecco, il giornalismo sociale si deve occupare di persone che non hanno voce e di cui non interessa nessuno.»

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