Il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare”, sono parole del compianto Tiziano Terzani che riassumono tutta una filosofia di vita o, per meglio dire, la vita stessa. Perché si può sopravvivere a sé stessi, correre all’impazzata senza mai trovare pace e serenità, sempre frustrati e insoddisfatti, o si può viaggiare, camminare, vivere la vita ogni secondo e ogni battito d’ala. E’ stato questo il più grande insegnamento – perché per tanti, tantissimi di noi (per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona e per chi l’ha conosciuto solo dopo la sua tragica dipartita) è stato un maestro, una stella polare che mai smetterà di brillare – di Alexander Langer.

Oggi (ieri, ndr di Heraldo) è il trentesimo anniversario del suo commiato da questa vita. Ma fermarsi a quel tragico giorno, sotto quell’albero di albicocche a Pian dei Giullari di Firenze, sarebbe una crudele ingiustizia. Perché il viaggio di Alexander è stato intenso, vibrante, vero per i tantissimi anni che ha dedicato all’umanità e al suo futuro. Viaggiatore leggero capace di caricarsi, come il suo amato San Cristoforo, dei pesi, delle angosce, ma anche delle bellezze, dei colori, della musica delle vite di chi incontrava e dell’ambiente, Alexander rovesciò, e invitava altri e altre a farlo, il famoso motto olimpico. Essere nella vita “più lenti, più soavi, più profondi”.

Alexander Langer era una persona che suscitava sentimenti profondi, che una volta incrociato non si poteva ignorare. Lo si disprezzava o lo si amava. Poteva suscitare disprezzo nei “materassi di piume”, per scriverla alla Dé Andre, in coloro che quotidianamente sopravvivono, senza rendersi conto della forza dirompente e straordinaria umana della passione, della sete di conoscenza, di giustizia, di umanità, che si accontentano di quotidiane squallide consorterie, egoismi, meschini e osceni tradimenti, volgari interessi. Ma, per fortuna, l’esistenza umana non è solo questo. La purezza e la profondità dell’animo umano sa andare oltre ogni barriera, ogni egoismo, amando rivolgendo lo sguardo soltanto verso lo scrigno custodito nel cuore dell’uomo. Ed Alexander era un faro in questo cammino, nel quale di un’esistenza bella e appassionata come la sua ci si può solo innamorare. Un amore appassionato che Alexander ha donato, in un’inquieta staffetta mozzafiato continua, senza mai fermarsi.

Viaggiatore inquieto, ha donato tutto se stesso all’umanità sofferente e oppressa, caricandosi i pesi e i dolori che ha incontrato per alleviarne le sofferenze e curarne le ferite, portatore di una speranza e di un amore che lo hanno portato a spingersi troppo avanti, fino ad arrivare nel deserto, dove gli uomini non si amano e non parlano e i pesi diventano eccessivi. Ha descritto nell’ottobre 1992, in ricordo di Petra Kelly, il dramma dei “portatori di speranze collettive” e di quanto è “troppo grande… il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono”. Si dona così tanto amore che giunge il giorno in cui se ne ha necessità vitale, fosse anche solo una carezza o una parola di condivisione e conforto. Come fosse acqua. Pura, casta, genuina, vitale. Sgorgante da fonte vera e profonda. La sete arde, brucia dentro. Si è donato così tanto amore, dedizione, passione agli altri da non averne più per sé. Ci si sente fragili e indifesi, si ha la necessità di qualcuno al quale stringersi e sostenersi, che sappia chinarsi sulle ferite del cuore e lenirle.

Si vive “in un tale incrocio di dolori” che non si riesce più a vivere, appaiono “troppe le attese frustrate e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le incomprensioni che nascono e segnano, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che il cuore brama e ciò che si riesce a compiere“. Si vorrebbe guardare sempre in alto, ma il peso della convivenza umana, avvelenata dalla mancanza di umanità, schiaccia al ribasso. Ci sono giorni che fanno sentire tutto il loro peso. Un peso enorme, che schiaccia, di illusioni tradite, di incomprensioni, di violenza e di cuori in lacrime. Quanto è grande la differenza tra quel che è e quel che vorremmo. Quanto immensa è la facilità di essere fraintesi, incompresi, travisati, dileggiati.

Nel settembre 1994 propose un radicale cambiamento degli stili di vita che sintetizzò nel rovesciamento del motto olimpico: “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce”) in luogo di “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte), avvertendo che “La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile“. Oggi la conversione ecologica è diventata un’esigenza imprescindibile, una necessità vitale. Ma non riesce ad affermarsi. Il decalogo per una convivenza interetnica, dedicato al suo SudTirolo, indica oggi un percorso che andrebbe percorso dall’Italia intera.

Scrisse che sul suo “ponte si transita in entrambe le direzioni” contento “di poter contribuire a far circolare idee e persone”. Cresciuto in una regione di frontiera, ha visto nella conoscenza reciproca, nell’incontro fecondo, una ricchezza da costruire quotidianamente. Ha precorso i tempi attraversando sentieri e strade con la lungimiranza e la visione di chi sapeva guardare oltre ogni orizzonte. S’immerse totalmente e incondizionatamente nel dramma jugoslavo, vivendo in prima persona e sulla stessa propria pelle. 

Sarajevo. Foto da Unsplash di Mi Yo

Tùzla, Sarajevo entrarono nel suo cuore e divennero una ragione di vita. Davanti alle atrocità, alla crudeltà e alla barbara follia della guerra visse, lottò e cerco con tutte le sue forze di difendere e far valere le ragioni della vita e delle sofferenze della popolazione, sognando migliaia di donne e uomini che con la forza disarmata della nonviolenza potessero far tacere le armi, interporsi a difesa dei civili, riannodare i fili di una convivenza umana – lontana dalle cancellerie, dalle “ragion di stato” e dai Potenti pronti a sacrificare migliaia di vite in nome dei propri politici personali interessi – e ricostruire i ponti devastati, quelli “reali” (per una generazione intera il bombardamento del Ponte di Mostar rappresentò un simbolo di quel che stava accadendo). Erano gli anni dell’impegno pacifista della Marcia dei 500 che spezzò l’assedio di Sarajevo e dei caschi bianchi, dei Beati Costruttori di Pace e del sacrificio di Gabriele Moreno Locatelli. Per Alexander, e per tutti i pacifisti impegnati in prima linea, la Pace non va solo declamata. Va costruita, va trasformata in un impegno concreto, vero, reale.  Quattro anni dopo la morte di Alexander Langer il Parlamento Europeo votò una risoluzione per la realizzazione dei “Corpi Civili di Pace”.

Al G7 a Napoli del luglio 1994 disse anche “silenziate un po’, per favore, i vostri altoparlanti, moderate le vostre televisioni, limitate le vostre pubblicità, contenete le vostre telenovelas! Date spazio e voce, ospitalità e megafono alle molte voci dei piccoli, alle voci del sud, alle voci di coloro che non scelgono di gridare, o che non hanno più fiato per farlo”. Questo nostro derelitto e disperato mondo Alexander lo ha attraversato in un viaggio leggero, profondo, con lungimiranza e mitezza d’animo che si sposavano perfettamente con una radicalità e una coerenza del pensiero e della pratica quotidiana esemplari, con intelligenza profonda nel guardare l’umanità, impegno appassionato, generosità dei sentimenti che lo ha portato al dono totale di sé agli altri e alla politica.

In uno dei biglietti che gli furono trovati accanto scrisse “continuate in ciò che è giusto”. Quella ricerca del giusto che porta a non trovare mai riposo, a donare tutto se stessi e sentire che non basta mai, sentendo il dovere di donare sempre più, ogni secondo della giornata perché le proprie incombenze, problemi, anche necessità, personali appaiono quasi tempo rubato all’attivismo, alla politica, agli altri.

«Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi, di incontri, di conoscenze, di imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri con il suo passo leggero e voglia il cielo che non perdano la speranza», scrisse Adriano Sofri dopo la morte di Langer.

Articolo a firma di Alessio Di Florio uscito su Pressenza, partner di Heraldo.

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