Referendum: le ragioni per andare a votare
In vista del referendum su lavoro e cittadinanza il governo spinge per l'astensionismo mentre l'opposizione chiede di andare a votare. Il ruolo dei sindacati.

In vista del referendum su lavoro e cittadinanza il governo spinge per l'astensionismo mentre l'opposizione chiede di andare a votare. Il ruolo dei sindacati.
L’8 e 9 giugno, i cittadini saranno chiamati alle urne per esprimersi su un referendum cruciale che potrebbe segnare una svolta significativa per il mondo del lavoro. Promosso dalla CGIL di Maurizio Landini per il lavoro e da Più Europa (tra gli altri) per il tema immigrazione, l’iniziativa mira a modificare le regole per ottenere la cittadinanza d parte degli stranieri nonché l’eliminazione totale o parziale di alcune norme sul lavoro, dai contratti a tempo determinato ai licenziamenti illegittimi, alla sicurezza sul luogo di lavoro.
L’atteggiamento del Governo è platealmente contrario, con il suo invito ad andare al mare nel week end del voto, di craxiana memoria, allo scopo di evitare il raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto, indispensabile per dare validità all’esito della votazione.
Come sempre, se guardiamo i partiti all’opposizione lo schieramento è più diversificato, nonostante l’appeal pro-diritti sociali che fa tanto sinistra della prima ora.
Alleanza Verdi Sinistra è il solo partito a spingere per il sì a tutti i quesiti, come pure la Direzione nazionale del Pd con l’imprimatur di Elly Schlein. Naturalmente, siamo a sinistra e perfino sui diritti sociali non c’è unanimità: alcuni esponenti del Partito democratico hanno già dichiarato che voteranno a favore solo dei quesiti sulla cittadinanza e sulla sicurezza sul posto di lavoro. Sugli altri tre, che implicano modifiche al Jobs Act di Renzi, la linea del no appare invalicabile.
Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha dato il suo sostegno al sì per i quesiti sul lavoro. Libera scelta – vai a capire il perché – sul tema cittadinanza. Azione, ha fatto sapere Calenda, ha invertito le posizioni.
Dal canto suo Renzi ha articolato la posizione di Italia Viva naturalmente proteggendo la sua creatura (sgrammaticata dal nome): sì per il quesito sulla cittadinanza, no al quesito sui licenziamenti e i contratti a tutele crescenti sui licenziamenti e a quello sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato, libera scelta sui quesiti sulla responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e quello sui licenziamenti, e i relativi risarcimenti, nelle piccole imprese. Più Europa, infine, promuove il sì solo per il referendum sulla cittadinanza e sulla sicurezza sul lavoro.
Il “sì” introdurrebbe misure concrete per contrastare il precariato endemico al mondo del lavoro, limitando l’uso dei contratti a termine e promuovendo contratti a tempo indeterminato. Questo darebbe ai lavoratori una maggiore stabilità economica e la possibilità di pianificare il proprio futuro.
Le critiche all’uso del referendum per temi così cruciali onestamente sanno più di pretesti ostativi, dato che qualsiasi matricola di giurisprudenza sa che proprio il legislatore costituente non riuscì ad inserire una legge di matrice parlamentare, lasciando la contrattazione ad una anacronistica quanto fantasiosa parità tra datori di lavoro e dipendenti.
Senza contare che suscita perplessità oggi richiedere un quorum sostanziale degli aventi diritto quando alle elezioni per le Camere si raggiungono picchi di astensionismo del 40%.
Da quando poi esponenti della maggioranza hanno invitato platealmente i cittadini a disertare le urne, i partiti dell’opposizione si sono intestati la battaglia contro l’astensionismo, denunciando il silenzio del servizio pubblico sul voto.
Sicuramente aver proposto i quesiti referendari sul lavoro ha riacceso l’attenzione sui sindacati, che negli ultimi vent’anni hanno visto erodere il loro potere contrattuale. In caso di vittoria del sì, presumibilmente assisteremmo ad un rafforzamento del ruolo dei contratti collettivi, superando la frammentazione e la concorrenza al ribasso tra i lavoratori. Anche i licenziamenti ingiustificati troverebbero un freno, dato che il “sì” introdurrebbe per i lavoratori una maggiore sicurezza e stabilità.
Per inciso, la vittoria del sì non farebbe tornare il diritto alla reintegra sul posto di lavoro per tutti i casi di licenziamento ingiusto come da art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Un eventuale successo dell’iniziativa della Cgil, infatti, farebbe tornare in vigore la legge Fornero, che nel 2012 aveva già ridotto drasticamente la tutela della reintegra. Più una vittoria politica che un reale intervento di tutela quindi.
Per amor di precisione ad oggi gli interventi in tema di licenziamenti illegittimi sono un vero gomitolo di fattispecie che in certi casi porterebbero addirittura ad un arretramento delle tutele per alcune categorie di lavoratori. In linea di principio, sicuramente la vittoria del sì porterebbe ad una semplifica2ione, eliminando in primis lo spartiacque della data del 7 mar2o 2015, contestata da tutti i giuslavoristi.
Qualora il popolo italiano si esprimesse per il sì, darebbe un chiaro segnale di contrarietà a una legge mossa dalla volontà di ridurre le tutele generali dei lavoratori.
Il “sì” investirebbe nella formazione e riqualificazione dei lavoratori, offrendo nuove opportunità di crescita professionale e di adattamento ai cambiamenti del mercato del lavoro. Questo sarebbe particolarmente importante per i lavoratori più anziani e per coloro che rischiano di essere esclusi dal mercato del lavoro a causa dell’automazione e della digitalizzazione.
Il successo dell’iniziativa promuoverebbe, inoltre, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, attraverso forme di cogestione o di azionariato dei dipendenti. Questo darebbe loro maggiore voce in capitolo sulle decisioni che li riguardano e un maggiore senso di appartenenza all’azienda.
La complessità e le implicazioni sulla società sono difficilmente riassumibili nella spiegazione dei temi referendari. La sfida ora è accendere abbastanza i riflettori contro l’astensionismo e la mancanza di informazione.
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