Secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, un rifugiato è definito come una persona che “per il fondato timore di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, […] non può o, a causa di tale timore, non vuole ritornare [nel Paese di cui ha la nazionalità o in quello in cui ha precedentemente risieduto]”.

Con l’aggravarsi della crisi climatica, aumentano i disastri che rendono inabitabili alcune aree (ad esempio siccità, piogge torrenziali, incendi, cicloni, innalzamento del livello del mare, ecc.). Nel 2021 il Dossier Statistico sull’Immigrazione ha indicato la crisi climatica come il principale motore della mobilità forzata globale nel 2020, e secondo le Nazioni Unite entro il 2050 ben 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a spostarsi. Si tratta dei cosiddetti migranti climatici.

A differenza dei rifugiati, che hanno diritto all’asilo, non esiste un quadro giuridico internazionale che protegga i diritti dei migranti climatici. Sorge quindi la seguente domanda: è necessario stabilire uno status speciale per i migranti climatici, che diventerebbero così “rifugiati climatici”?

Secondo Dina Ionesco, responsabile della Divisione Migrazione, Ambiente e Cambiamento Climatico (MECC) dell’Agenzia delle Nazioni Unite per le Migrazioni (OIM), l’istituzione di un tale status “non riconoscerebbe una serie di aspetti chiave che definiscono la mobilità umana nel contesto del cambiamento climatico e del degrado ambientale”. Uno di questi numerosi aspetti è che la migrazione climatica è principalmente interna. Infatti, secondo le Nazioni Unite, 75,9 milioni di persone sono state sfollate internamente nel 2023. Pertanto, un gran numero di migranti climatici si muove sotto la responsabilità del proprio Stato e non cerca protezione in un Paese terzo o a livello internazionale. Tuttavia, un numero consistente di persone attraversa i confini nella speranza di trovare condizioni climatiche migliori in un altro Paese.

Italia, un ingresso nella “fortezza Europa”

Secondo il Parlamento europeo, una tendenza in atto è che un numero crescente di sfollati per motivi climatici attraversa i confini nazionali. 

Nel suo rapporto del 2022, il Centro Studi e Ricerche IDOS di Roma ha affermato che “i primi Paesi di provenienza dei migranti giunti in Italia nel 2021 sono Paesi particolarmente colpiti da fenomeni legati al clima”. Infatti, secondo Legambiente, circa il 68% dei migranti che arriveranno via mare in Italia tra il 2019 e il 2022 proviene dall’area del Sahel, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Bangladesh e dal Pakistan, dove la situazione ambientale è in drastico peggioramento.

L’Italia ha fatto un passo avanti verso misure specifiche per l’accoglienza dei migranti climatici con il “decreto Salvini” del 2018, introducendo un permesso di soggiorno esplicitamente per motivi di calamità ambientali. Secondo la Corte di Cassazione, l’intenzione era quella di consentire il rilascio di questo permesso in tutti i casi in cui “il contesto socio-ambientale fosse talmente degradato da esporre l’individuo al rischio di vedere i propri diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione ridotti a zero o al di sotto della soglia del loro nucleo essenziale”. Tuttavia, le modifiche introdotte nel 2023 dal “decreto Cutro” richiedono che la situazione di calamità sia “contingente ed eccezionale”, il che restringe il campo di applicazione della misura e rappresenta quindi un passo indietro.

Eppure, anche l’Italia sta affrontando i cambiamenti climatici e il pregiudizio che i migranti siano solo un peso per il Paese ospitante è un’illusione. Soprattutto nel contesto della crisi ambientale, i migranti possono essere un’opportunità di adattamento e resilienza.

La crisi ambientale in Italia e come i migranti possono contribuire ad affrontarla

In effetti, la crisi climatica non è limitata al di fuori dell’Europa e ha conseguenze anche in Paesi europei come l’Italia. Secondo la Strategia nazionale italiana di adattamento ai cambiamenti climatici (SNAC), le Alpi e gli Appennini sono aree fragili in cui si prevede che gli impatti dei cambiamenti climatici saranno particolarmente duri, non solo per le sfide ambientali, ma anche per le conseguenti vulnerabilità sociali, economiche e demografiche (spopolamento, ad esempio).

Un approccio innovativo a questo problema è la valutazione del contributo che i migranti possono dare in queste aree in termini di resilienza e adattamento, che è stato esplorato dallo studio dell’OIM “The Migration, Environment and Climate Change Nexus: exploring migrants’ contribution in addressing climate change challenges in Italy’s mountain areas”. È stato osservato che i migranti che vivono in queste aree contribuiscono ad affrontare gli impatti dell’emigrazione, dell’invecchiamento e del declino della popolazione, consentendo di mantenere i servizi locali come l’istruzione, l’assistenza sanitaria e i trasporti, di rivitalizzare le economie locali e di attirare nuovi residenti.

Quindi, come riassume bene questo studio, “la migrazione può essere sia una conseguenza degli impatti negativi del cambiamento climatico sia un fattore di resilienza e adattamento”.

Articolo uscito a firma di Oriel Wagner sulla testata Vez.news, partner di Heraldo.

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