Neppure nell’emergenza, la peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, i doveri sembrano riuscire a scalfire nell’italiano medio la necessità di anteporre a tutto e tutti i propri diritti, soprattutto se ne individua il cavillo giusto. Non sono bastati gli appelli, le norme, le richieste invocate a gran voce dal Presidente del Consiglio, dagli esperti, dai medici, dagli opinion leader, per far capire a chiunque la banalità del messaggio “state a casa”.

In questi giorni delicatissimi, nel pieno del tentativo di contrasto alla diffusione del Coronavirus, non esattamente quattro gatti hanno invece interpretato ogni possibile deroga pro domo sua. Colpa delle istituzioni che non hanno voluto schiacciare al massimo sul pedale dei divieti? Non facciamo ridere. Ogni piccolissima finestra lasciata libera dai decreti – la cui filosofia è chiara e comprensibile – a proposito degli spostamenti e della possibilità di uscire di casa, è evidente la si debba interpretare anteponendo il buon senso, anzi il senso civico. Cioè, senza dover rinunciare alle esigenze primarie, qualsiasi interpretazione può valere sì, ma in maniera restrittiva e a favore della collettività.

Una prova di fiducia in parte sprecata alle nostre latitudini. In un Paese immaturo per eccellenza, che chiede l’uomo forte ma sempre per gli altri, la collettività in buona parte si è dimostrata quella che è: un po’ egoista, un po’ menefreghista, di sicuro allergica alle regole e sempre pronta a trovare l’inganno attraverso il cavillo. L’automobile parcheggiata in doppia fila meriterebbe di affiancare l’Italia “turrita e stellata” tra i simboli patri nazionali. In fondo quelle frecce lampeggianti rappresentano ciò che siamo. Un popolo in cui le proprie priorità sono anteposte a quelle della collettività. Accade ogni giorno, ovunque. “Cinque minuti e torno”. Nel frattempo il bus non riesce a passare e si forma l’ingorgo. Ma chissenefrega, tanto il problema riguarda gli altri, no?

Federico Sboarina, Sindaco di Verona

L’ordinanza comunale di ieri comunicata dal Sindaco di Verona è stata la mortificata risposta delle istituzioni a chi non riesce a capire, a chi ha bisogno dei dettagli dei dettagli per sapere cosa può o non può fare. A chi a stare a casa proprio non ce la fa. Nonostante l’alfabetizzazione in Veneto sia arrivata al 99,9%, dunque supponendo che sia chiara a tutti la problematica che stiamo attraversando, alla fine c’è stato bisogno di inserire specificatamente un paio di comma per impedire che i concittadini sfruttassero ogni pretesto per derogare a qualsiasi vincolo. Lo aveva già espresso alcuni giorni fa Federico Sboarina: uscire a far jogging, ad esempio, non rientra tra i divieti, però prima di mettersi in tuta e scarpe da ginnastica occorre ragionare in termini di comunità. Nel rispetto degli altri: limitare al massimo i contatti a rischio e dunque di riflesso non caricare ulteriormente il lavoro del personale ospedaliero. Invece no, come recitano le tante segnalazioni e gli interventi delle forze dell’ordine in questi giorni. In un contesto in cui manco gli atleti professionisti stanno allenandosi, è diventato necessario spiegare meglio cosa significa “stare a casa”. Con il buon senso degli altri, in troppi si sono riversati in strada a farsi la passeggiata, la corsetta, il giretto in bici, o l’ennesima visita al supermercato.

L’andamento del contagio del Coronavirus, il numero dei contatti e dei decessi – dunque la necessità di attuare una sempre maggiore prevenzione – hanno costretto diversi primi cittadini come Sboarina ad intervenire a compendio dei vari Dpcm. Qualcuno addirittura ne ha cavillato la liceità, in punta di diritto. Se si è arrivati all’assurdo di chiudere le piste ciclabili e negare la possibilità di sedersi sulle panchine per decreto, non pare proprio un vezzo delle istituzioni né tanto meno “propaganda politica”. Semmai, che il popolo fosse un bambino lo immaginavamo. Però ammettiamolo, non fino a questo punto.