I fatti di Pioltello (Milano), che hanno scatenato polemiche in merito alla decisione dell’Istituto scolastico di chiudere seguendo le necessità religiose del Ramadan islamico, ci permettono una riflessione sul ruolo della scuola, l’integrazione e il rapporto tra laicità dello Stato e credo personale.

La questione, posta dall’Istituto, è che il gran numero di studenti islamici (o induisti, sarebbe la stessa cosa) non può non influenzare la didattica nei tempi e nei modi; una presenza massiccia – 1.270 alunni fra infanzia, primarie e medie, con una presenza straniera di oltre il 43% – che porta con sé “dei risultati formativi che sono enormemente inferiori rispetto a quelli della media lombarda”.

Sensibilità culturale

E se in Italia, per il momento, non si è ancora giunti a interferire con i contenuti delle discipline come in Francia, dove alcuni studenti islamici hanno contestato un’insegnante colpevole di aver mostrato nel corso di una lezione di arte il quadro (con nudi) di “Diana e Atteone”, di certo, in un contesto etnicamente molto connotato come quello di Pioltello, questo fatto incide sullo svolgimento della didattica, visto che il Dirigente Scolastico avrebbe scritto ai docenti: “Vi incoraggio a dimostrare sensibilità culturale e religiosa durante il Ramadan e a rispettare le pratiche religiose; alcuni studenti potrebbero essere affetti dalla riduzione dell’energia dovuta al digiuno, siate comprensivi rispetto all’attività didattica”.

E se, com’era facile attendersi, il deputato e capogruppo Lega in commissione cultura Rossano Sasso ha dichiarato addirittura che “la sottomissione all’Islam viene somministrata a piccole dosi“, di fatto un fondo di verità c’è. Il compito della scuola qual è? Integrare significa imporre il modello “italico”, adeguarsi alle necessità di tutti o proporre un modello di cittadino a prescindere dal credo dell’alunno e della famiglia?

Se per Salvini “crocifisso e presepe sono simboli dei nostri valori, della nostra cultura e delle nostre tradizioni, espressione della nostra identità”, simboli della nostra cultura sono anche l’arte con il nudo, il mito e la cultura pagana greco-romana, con scene, ruoli e situazioni per alcune religioni (cristianesimo compreso) inaccettabili. E quindi che si fa?

Se integrare significa rendere italiani gli immigrati, e se il cristianesimo nei suoi simboli e nei suoi valori è essere italiani, allora dovremmo cacciare dal sacro suolo italico tutti i non convertiti, o almeno dalla scuola. Come modello inclusivo di integrazione sarebbe sicuramente pratico ma, com’è facile intuire, deboluccio negli effetti. Anche la cultura greco-romana insegnata nelle scuole andrebbe riconsiderata: insomma, torniamo la scuola di Edmondo De Amicis di Cuore.

Se i simboli cristiani non rappresentano tanto il cristianesimo ma la “cultura tradizionale del popolo”, allora non si vede perché non concedere un giorno di festa anche per la festa del riso di Cerea o per lo “Sfincione Fest” di Bagheria (PA). Perché, accanto al crocefisso, non appendere allora una piadina o una pizza, simbolo italiano per eccellenza nel mondo? A Verona, in virtù dell’Autonomia, perché non un ciclo di lezioni su come si fa la pearà? Sembra ed è una provocazione, ma cos’è precisamente l’essere italiani? Sappiamo definirlo davvero?

Possiamo di contro rispettare concretamente le culture e le religioni ospiti. Questo, però, va oltre il distribuire a pioggia giorni festivi per la gioia degli alunni: significa, in realtà, dover rinunciare a modelli culturali e sociali come il ruolo paritario della donna (che non sarebbe nemmeno cristiano, a ben vedere), ai contenuti distintivi dell’Occidente rispetto a culture patriarcali (diritto di parola, responsabilità individuale e non familiare, autodeterminazione, no alla sharia…). Forse, quando (non se) cambieranno i rapporti di forza a seguito del cambiamento demografico, questo potrà avvenire: sarebbe certo, per gli anziani autoctoni, un cambiamento subìto.

Foto da Pexels di 周 康

Le vie d’uscita

Una prima via d’uscita per l’integrazione dovrebbe essere la coesistenza nelle classi di immigrati e non autoctoni. Ma le famiglie italiane, se possono, la evitano volentieri: temono, infatti, che i loro figli patiscano un gap scolastico e che si allineino con i risultati dei figli degli stranieri, che hanno i valori più alti per ritardo scolastico, bocciature e abbandoni. Ecco dunque il fenomeno delle White Flight, che è la risposta delle famiglie al tentativo dello Stato di scaricare ad altri la questione integrazione.

Una seconda via d’uscita, almeno nelle scuole, sarebbe procedere senza incertezze nella direzione del modello francese: ovvero, progressivamente, dovremmo sostituire alle feste religiose le feste nazionali e civili. Di più: a scandire il calendario dovrebbero essere le esigenze didattiche.

Perché ricominciare a metà settembre, se non per permettere ai balneari di finire la stagione? Perché due settimane tra dicembre e gennaio, se non per la settimana bianca? D’estate i ragazzi andavano a lavorare nei campi, un tempo, e quindi ecco la chiusura da giugno ad agosto. Ora, tolta la questione climatizzazione di istituti che in alcuni casi faticano a rimanere strutturalmente in piedi, rimane il punto: inclusione e integrazione, nella scuola di Stato, passano dall’esclusione dei credi religiosi, nella forma e nella sostanza, perché compito dello Stato è formare cittadini sui valori dell’Occidente, a prescindere dal credo della famiglia, sempre che se ne abbia uno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA