“Sono in totale 92 i licei a indirizzo Made in Italy sinora approvati sul territorio nazionale: […] si tratta di un risultato importante, considerati i tempi stretti a disposizione delle scuole per avanzare le loro candidature e completare l’iter di autorizzazione. Il nuovo liceo arricchirà l’offerta della nostra scuola superiore, dando quelle risposte formative che il sistema paese richiede”. Commentava così il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara all’alba della fase delle iscrizioni, il 23 gennaio.

È andata male, un po’ ovunque, 375 in tutta Italia, che diviso 92 fa 4 per classe: non male, malissimo. Dalle nostre parti, in provincia di Verona, ha fatto scalpore che il Liceo Cotta di Legnago abbia raccolto, per questo indirizzo, non più di tre iscrizioni. In città, cercheremo di scoprire la performance del Liceo Montanari, anche se non ci dovrebbero essere sorprese. Per Legnago, comunque, davvero numeri ridotti, a riprova che la risposta formativa “che il sistema Paese richiede” è sbagliata.

Nonostante le fanfare, il Ministero ci ha messo del suo per azzoppare la propria creatura. Prima di tutto si è fatto tutto di corsa e a metà, spinti da un immotivato bisogno di finalizzare già nel 2024 e, a quanto pare, per volontà esterne al Ministero ma da ricondurre ad Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy. Già si è ironizzato sullo stesso nome scelto, ennesimo inglesismo per un liceo teso nondimeno “a valorizzare e promuovere, in Italia e all’estero, le produzioni di eccellenza, il patrimonio culturale e le radici culturali nazionali, quali fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari, ma anche per la crescita dell’economia nazionale” (art. 1, Legge 206, 2023).

A proposito di identitarietà, si dovrebbe piuttosto riflettere su questo pullulare di licei che non prevedono il latino. Il latino e il greco, prima che lingue, sono veicoli culturali: in una società sempre meno composta da autoctoni e con sempre più immigrati di prima o seconda generazione, rimangono tra i pochi strumenti rimasti per veicolare nei giovani principi identitari – che fino a qui hanno caratterizzato questa Nazione – a generazioni culturalmente disomogenee. Si abbia almeno il coraggio di chiamarli istituti tecnici e professionali: non c’è niente di male.

O forse, per l’italiano medio, qualcosa di male ci dev’essere se il 57% degli studenti, fresco di scuola “media”, ha scelto un percorso liceale per l’anno scolastico 2023-2024: questo dato ci racconta quanto conti il senso di riscatto (del tutto immaginario, vista l’assenza di mobilità sociale) che passa per forza attraverso la conquista di un pezzo di carta “de le scole alte“. Diploma che, per essere alla portata di quasi sei ragazzi su dieci, potrà ora essere tutto fuorché troppo selettivo.

A rendere la questione già difficile di suo, ci si è messa poi la stessa struttura della proposta del Liceo Made in Italy.

In primis, perché il quadro orario nasce incompleto, dato che non è strutturato al momento solo per il biennio (per il triennio, chi vivrà vedrà). È prevista una sola ora di storia dell’arte, pochino per aspirare a “promuovere il patrimonio culturale”: se questo era l’intento, esistono già licei con curvatura “beni culturali” che sono molto più efficaci e, peraltro, belli pronti. Oppure, molto simile al nuovo liceo ma più strutturato, è il Liceo Scienze Umane opzione Economico sociale, che in più propone un quadro orario più completo e anche più rispettoso della storia dell’arte.

In secondo luogo, il percorso è sempre di cinque anni: a questo punto, si poteva azzardare una proposta quadriennale, così da permettere ai neodiplomati di partecipare a concorsi e selezioni alla stessa età degli studenti europei. È poi previsto un collegamento forte con l’ITS Academy, percorsi di specializzazione tecnica post diploma. Anche qui, con un inglesismo. Ma quanto è fascinosa la perfida Albione.

Peraltro sarebbero interessanti invece i contenuti. Parafrasando l’art. 18, si prevede una maggiore connessione con i settori produttivi del made in Italy, anche “attraverso il potenziamento dei percorsi di apprendistato”, ovvero l’acquisizione di principi e strumenti per la gestione d’impresa, di tecniche e strategie di mercato per le imprese del made in Italy; degli strumenti per il supporto e lo sviluppo dei processi produttivi e organizzativi delle imprese del made in Italy; degli strumenti di sostegno all’internalizzazione delle imprese dei settori del made in Italy e delle relative filiere.

Tutte cose per le quali sia gli istituti professionali che i tecnici sono più preparati per utenza, storia, personale, connessione col territorio e le imprese. Perché non destinare a queste realtà maggiori risorse finalizzate agli obiettivi attesi, magari intervenendo sul contenuto delle discipline coinvolte? O forse siamo entrati in una nuova fase, una sorta di rivoluzione culturale di stampo maoista, per cui si è deciso che questo 57% di aspiranti liceali deve essere rieducato al lavoro manuale?

L’esperienza ci insegna che per ogni nuovo Governo è obbligatorio fare una riforma scolastica: non conta come, l’importante è che sia calata dall’alto. Visto che in economia il debito ci impedisce qualunque vero cambiamento, visto che in politica siamo vincolati a scelte diplomatiche già tracciate da realtà più grandi di noi, la scuola – con riforme ovviamente a costo zero (“è adottato nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”) – permette di piantare la propria bandierina identitaria con zero risorse e poco sbatti.

Easy, come piacerebbe dire a questo Governo.

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