Mille modi di morire in quanto donne 2/6
Secondo appuntamento di una serie di approfondimenti dedicati al tema del femminicidio e della violenza di genere. Proseguiamo con gli spazi e i modi della violenza e discriminazione.
Secondo appuntamento di una serie di approfondimenti dedicati al tema del femminicidio e della violenza di genere. Proseguiamo con gli spazi e i modi della violenza e discriminazione.
Dopo aver parlato nel primo appuntamento dei termini femminicidio e femicidio, proseguiamo con il nostro approfondimento parlando degli spazi e i modi della discriminazione di genere nel diritto penale e nella criminologia.
La discriminazione di genere/sesso è paragonabile, per gli effetti che produce, ad un crimine contro l’umanità.
Mi viene spontaneo, prima di enunciarli e sinteticamente analizzarli, identificare gli spazi, i luoghi in cui la donna, in quanto tale, è costretta a subirli, anche da un punto di vista storico.
In seguito, serve interrogarsi, a mio modo di vedere, su quali siano i modi in cui essa si manifesta, nonché l’oggettività giuridica che, in una prospettiva plurioffensiva di analisi dei reati, va individuata, a mio parere, non solo avendo a riguardo allo specifico bene giuridico tutelato dalla norma penale nella disciplina codicistica od extracodicistica – quali ad es quello della tutela della vita, della incolumità psico-fisica, della famiglia, della libertà morale ecc. – ma anche con riguardo al femminile, e soprattutto alla dignità della persona offesa, ossia la donna in quanto tale, a prescindere dai comportamenti da essa tenuti.
Al primo quesito si può rispondere con una elencazione di delitti consumati all’interno delle mura domestiche o con autori di reato conosciuti: gli atti persecutori (art. 612 bis cp), le mutilazioni genitali (art. 583 ter cp), le violenze sessuali, anche di gruppo (artt. 609 bis ss cp), le minacce (art. 612 cp), le ingiurie (art. 594 cp), la diffamazione (art. 595 cp), il cd cyberstalking, il cyberbullismo (si noti come sia agevole incappare in siti che inneggiano al disvalore delle donne che si pongono in difesa della differenza di genere, sotto croci uncinate appaiono espressioni del tipo “Chi professa la diversità del genere odia solo un genere: quello maschile” , i maltrattamenti in famiglia (art. 572 cp), le molestie telefoniche (art. 660 cp) o altri reati che possono giungere alla estrema e tragica conseguenza della morte come l’uxoricidio (art. 575 ss cp), l’istigazione al suicidio (art. 580 cp) , le percosse (art. 581 cp), le lesioni personali fisiche e morali (art. 582 cp), il sequestro di persona (art. 605 cp), commessi per motivi essenzialmente misogini o sessisti, ovvero, riprendendo la definizione sopra citata, in quanto la donna non si è adeguata nel suo vivere al modello sociale precostituito e pensato per lei.
Oltre quelli che caratterizzano il fenomeno della cosiddetta “violenza endofamiliare”, gli spazi delle discriminazioni e delle violenze di genere possono essere, secondo la mia riflessione, anche pubblici: il luogo di lavoro, le strutture come quelle pubbliche ospedaliere, i luoghi deputati alla raccolta delle denunce, il carcere, la strada, in generale l’intera società con il modello culturale imperante nel nostro paese.
L’Italia spesso appare come una nazione dove i “padri” divorano i figli e non si può permettere il mutamento dei costumi, della mentalità, della cultura, ancora in parte patriarcale.
Consentire anche la declinazione del cd femminicidio quale “delitto dell’amore concluso” o “mattanza passionale” non fa che avvalorare e consolidare il costume imperante e il modo di pensare alle relazioni uomo/donna nel contesto sociale attuale.
A mio parere il modello sociale “androcentrico” ha consentito alla donna di adeguarsi a comportamenti considerati, per loro natura, consoni al contesto sociale: siamo madri, siamo mogli, possiamo essere amanti, prostitute o suore.
Fatichiamo, in una parola, a trovare, anche nelle relazioni con il maschile, “ruoli” diversi da quelli che ho innanzi indicato che ci permettano di essere, con semplicità, persone complesse non inquadrabili, in un costante divenire che possono permettersi di vivere, anche con l’altra parte del cielo, ossia il maschile, relazioni non definite in maniera precostituita.
Spesso l’esperienza ci insegna che chi da donna vive sola suscita lo strisciante interrogativo: sarà lesbica?
Se il fenomeno di cui stiamo trattando si considerasse per come esso si presenta a livello mondiale potremmo osservare come esso possa manifestarsi in maniera strisciante, persino glamour in alcune parti del mondo, plateale e brutale in altre. Appare, come è stato osservato, che la“…violenza sia così quotidiana da sembrare ineluttabile. È la violenza contro le donne. È la guerra alla dignità femminile. Tentacolare e multiforme. Donne vittime di stupri politici, rapite e picchiate perché pedine deboli sullo scacchiere dei conflitti tribali. Mogli che subiscono in silenzio tra le mura di casa. Figlie che vedano le madri tacere per anni di fronte ad assurde imposizioni religiose o per soggezione economica.”
Per quanto riguarda, poi, i luoghi ove questa massa variegata di violenza si consuma possiamo osservare come essa si possa consumare anche sul luogo di lavoro.
A tale riguardo, faccio riferimento a quella fumosa, per quanto attiene il diritto penale, figura delittuosa del cd “mobbing” in tutte le sue forme (orizzontale, verticale, strategico, da capo). Le norme di riferimento per sanzionare tale fenomeno sono svariate, dall’art.572 cp – nella parte in cui si considera il luogo di lavoro come quello in cui maturano rapporti di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o di un’arte-. E ancora, laddove il lavoro si svolga nell’ambito del pubblico impiego, ci si è interrogati circa la possibile sussunzione di detti comportamenti, come osservato in dottrina e in giurisprudenza, alla fattispecie criminosa del reato di abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 cp.
Il primo orientamento, che ben poteva definirsi ormai dominante, è stato parzialmente disatteso dalla giurisprudenza di legittimità.
A conclusioni ancora diverse è, peraltro, successivamente giunta la stessa sezione VI della Corte di Cassazione relativamente ad una estesa serie di comportamenti mobbizzanti in ambiente lavorativo, verificatisi presso una azienda municipalizzata per lo smaltimento di rifiuti urbani, concretizzatisi in molteplici attività dei vertici aziendali volte a conseguire l’acquiescenza dei lavoratori (in particolare presso il termovalorizzatore) alle carenze degli impianti di sicurezza e di prevenzione degli infortuni, sottoponendo gli stessi lavoratori a ripetuti provvedimenti di dequalificazione, di depotenziamento dei rispettivi ruoli ed a minacce di sanzioni disciplinari ingiustificate, qualificati come maltrattamenti (art. 572 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.).
Va anche evidenziato che, secondo quanto ordinariamente ritenuto dalla giurisprudenza, il delitto di maltrattamenti: (a) concorre con quello di violenza sessuale, in quanto le rispettive fattispecie incriminatrici tutelano beni giuridici diversi, (b) assorba i delitti di percosse (art. 581 c.p.) e minacce (art. 612 c.p.), anche gravi (che costituiscono elementi essenziali della violenza fisica o morale propria della fattispecie di cui all’art. 572 c.p.), sempre che tali condotte siano state contestate come finalizzate al maltrattamento, ma non quello di lesioni, attesa la diversa obiettività giuridica dei reati. Quest’ultima affermazione non appare, peraltro, incondizionatamente condivisibile, ove si consideri l’aggravante speciale di cui all’art. 572, comma 2, c.p. (“se dal fatto deriva una lesione personale grave o gravissima, o la morte”), che pare indurre a considerare le lesioni personali quale possibile conseguenza “tipica”dei maltrattamenti, e la pacifica plurioffensività del delitto di cui all’art. 572 c.p.; (c) può concorrere con quello di violenza privata (art. 610 c.p.), quando le violenze e le minacce del soggetto attivo siano adoperate, oltre che con la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche e morali in modo continuativo ed abituale, anche con l’intento di costringerlo ad attuare un comportamento che altrimenti non avrebbe volontariamente posto in essere .
Va poi, seppur sinteticamente, menzionato il rapporto tra il fenomeno del cosiddetto mobbing e quello dello stalking: figure delittuose in grado comunque di svilire la donna, nel contesto lavorativo.
La ritenuta riconducibilità dei più frequenti fatti di mobbing all’art. 572 c.p. (che comunque appare all’evidenza, per il riferimento all’ambiente di lavoro, lex specialis) rende privo di conseguenze giuridiche il pur suggestivo riferimento, che parte della dottrina ha proposto, all’art. 612-bis c.p., poiché il reato di stalking è configurabile con clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”): e quello di cui all’art. 572 c.p. punito con pena più elevata (da uno a cinque anni di reclusione, in luogo di quella da sei mesi a quattro anni di reclusione); ed il divario aumenta a dismisura per le fattispecie aggravate da un evento lesivo ex art. 572, comma 2, c.p., che ben può consistere nel grave stato di ansia o di paura di cui all’art. 612-bis, cp.
All’ambito di cui all’art. 612-bis c.p. sembrerebbero poter essere ricondotti al più i fenomeni di mobbing orizzontale che esulano dall’ambito dell’art. 572 c.p., in quanto (a giustificazione sistematica del più mite trattamento sanzionatorio) sarebbe ben possibile ritenerli meno gravi di quelli di mobbing verticale.
Spesso queste situazioni mobbizzanti o persecutorie si verificano proprio in occasione del ritorno dalle gravidanze.
Una maternità osteggiata è, a mio modo di vedere, la cartina di tornasole di una radicata assenza di futuro per le donne nello spazio pubblico della società, in cui si manifesta chiaramente una forte discriminazione quale strumento per disinnescarne l’autorevolezza e la competenza che queste spesso, con enorme fatica, dimostrano.
La discriminazione, in tale contesto, si manifesta in una maggiore difficoltà di contrattazione, che porta inevitabilmente a una corresponsione di salari più bassi per le donne e al dovere di impegnarsi in una doppia giornata lavorativa.
Non va poi dimenticato il fenomeno del “caporalato” al femminile, che si presenta quale strumento di sfruttamento delle donne lavoratrici sottopagate e impiegate, in occasione dei lavori stagionali, in faticose opere di raccolta di verdure e frutti di stagione. Questo strumento ha conosciuto un fenomeno di recrudescenza in “..occasione dell’acuirsi del fenomeno dell’immigrazione irregolare e della conseguente disponibilità sul mercato di manodopera a basto costo e sostanzialmente priva di tutela. Il problema nella prassi applicativa è stato talvolta affrontato ricorrendo alla contestazione del reato di riduzione in schiavitù (art. 600 cp), in grado però di intercettare solo quei fenomeni caratterizzati da un marcato sfruttamento della vittima..e parimenti non risolutivo, ancorché per motivi diversi, si è rivelato il tentativo di ricondurre lo stesso fenomeno anche nella sua accezione al femminile nell’alveo delle fattispecie di estorsione (art. 629 cp) e di violenza privata (art. 610 cp)”.
Anche nel mondo del lavoro entra la componente della sessualità. A tale proposito va osservato come non si tratti di una questione di “puritanesimo”, né di esagerazione, ma di vera e propria limitazione dei comportamenti alle quali le donna è sottoposta.
Vediamone alcuni: evitare di incontrarsi sola con il cd “capo”, vigilare su ciò che si dice, rinunziare a riunioni: tutto questo determina nella donna un turbamento psicologico, il timore che le “sensazioni” vengano rese pubbliche, ed un eventuale conseguente pregiudizio che permettono di qualificare tutto ciò come un vero e proprio problema sociale e non come un mero problema confinato nell’area del mondo interiore di ciascuna di noi.
Altra frequente aggressione alla donna nel contesto lavorativo o nella sua autorevolezza professionale e nella sua competenza politica è quella attinente alla lesione dell’onore e della reputazione.
Ingiuriare (art. 594 cp) la donna o diffamarla (art. 595 cp) paiono essere strumenti privilegiati per impedire che la stessa possa accedere a posti, ad esempio, dirigenziali, ove viene esercitato il potere. Il dato costante attiene al fatto che coloro che “sovrintendono” alla reputazione delle donne, sono proprio gli uomini i quali, mantenendo il controllo sulla loro stima, contestualmente mantengono una forma di controllo sociale dei comportamenti. L’esempio classico è quello di denigrare la donna in ragione del suo orientamento sessuale: questo è un modo sempre efficace per frenare la donna, mantenendola in una sorta di regime di “eterosessualità istituzionalizzata”; o, ancora, quello di accostare sue promozioni al cd svilente ruolo di “amante del capo”.
Tali aspetti attinenti alla reputazione, che paiono superati in una società apparentemente “civilizzata, democratica, egualitarista” quale quella occidentale, sono in realtà e tristemente produttivi di effetti reali: lesioni morali e persino fisiche. Quali conclusioni poi rispetto alla questione se si possa legiferare al fine di eliminare il sessismo, al fine di espellerlo dall’idioma? A mio parere, seppure non compiutamente risolutivo potrebbe essere utile il passo di un riconoscimento esplicito della fatica quotidiana e individuale che le donne sopportano.
È qui tuttavia che la difficoltà diviene enorme: ad esempio si formano vere e proprie coalizioni contrarie a tale impegno al nominare il fenomeno, malgrado numerosi articoli e contenuti di riviste, popolari e non, che descrivono le differenze fondate sul sesso. Ma è o sarà sufficiente sradicare il sessismo linguistico per contrastare, partendo da esso, altre forme di sessismo presenti nell’altre aree della società?
Consideriamo un ulteriore aspetto: la donna, a differenza dell’uomo, viene spesso valutata, anche sul luogo di lavoro o nel contesto istituzionale, in relazione al suo aspetto fisico. Dalla donna ci si attende che sia gradevole e abbia un aspetto in salute, aldilà della sua competenza.
Non va poi dimenticato il linguaggio che nei luoghi di lavoro viene riservato alle donne. Sul luogo di lavoro la si predilige silenziosa, invisibile, quando è presente spesso ci si riferisce a lei in termini sessisti e triviali. Rilevo come nel raffrontare il maschile e il femminile esista una doppia moralità: una per la donna e una, sempre più accondiscendente, per l’uomo; chiediamoci, ancora, perché la donna dedichi molto più tempo al suo aspetto? Perché la donna sia associata al mondo degli affetti e definita come intuitiva e raramente aggressiva?
Su queste differenze si costruisce l’ideale della donna: una moglie sempre perfetta, sia come donna che come sposa.
Da queste precisazioni meglio comprendiamo come l’assegnazione della donna nell’ambito domestico consenta un facile abbinamento alla dimensione biologica della stessa identità sessuale, mentre se la donna viene considerata in un contesto sociale, lavorativo o politico rileva, a mio modo di vedere, con maggiore forza l’accezione meta-biologica del genere, che consente spesso ripartizioni foriere di disuguaglianze.
In dottrina si è osservato: “perché il corpo biologico sia femmineo –incorporando la costruzione sociale della femminilità- deve- determinarsi un dato volume, una data andatura, una postura adeguata ed è tenuta ad abbellirsi. Quale è altrimenti il rischio? Quello di trasformarsi in un uomo o quello di potersi dedicare solo a cose “frivole” che attengano all’abbellimento della persona”.
Una diversa declinazione della discriminazione delle donne nella società è quella che potrebbe definirsi quale difficoltà ad occupare “lo spazio pubblico”: lo spazio della polis.
Gli ostacoli posti alla possibilità di partecipare a riunioni parlamentari, la possibilità di essere candidate o di esserlo solo se donne silenti od obbedienti a uomini o donne mascolinizzate nei rapporti con il loro stesso sesso, sono, a mio modo di vedere, una espressione di questa ulteriore discriminazione alla quale è soggetta la donna.
Consideriamo, sempre al fine di individuare i luoghi di consumazione dei reati in danno delle donne, la violenza che si realizza nelle strutture ospedaliere pubbliche in cui troppo spesso, in nome di una poco chiara e talvolta abusata “obiezione di coscienza”, si giunge a commettere delitti quali il “rifiuto d’atti d’ufficio”(art.328 cp).
A tale riguardo serve ricordare che l’obiezione di coscienza, ad esempio, può essere invocata, secondo la legge, solo rispetto alle interruzioni di gravidanza e non ad esempio rispetto alla somministrazione della pillola del giorno dopo, non essendo questa qualificabile- anche se sul punto le posizioni della scienza medica sono contrastanti- quale metodo abortivo, ma essendo un metodo contraccettivo. Nella prassi vi sono stati casi in cui un rifiuto è risultato indebito in quanto giustificato dalla obiezione di coscienza, con conseguente patimento da parte della donna.
Volendo scendere nello specifico della realtà, si pensi a quando in una pubblica struttura ospedaliera una donna, spesso giovane e sola o magari anche immigrata e, dunque, con una scarsa padronanza della lingua italiana e scarsa consapevolezza dei propri diritti chieda la pillola del giorno dopo e si veda respinta dal medico, che si appella alla “obiezione di coscienza” spesso colorando il tutto con la asserita grave pericolosità della sua assunzione. In questi casi reputo che, nel rispetto obiezione di coscienza, dovrebbe essere comunque garantita alla richiedente la pillola, ad esempio attraverso la presenza di più medici, che si sentano di poter, in coscienza, somministrare tale tipo di farmaco; analoghe considerazioni possono essere poi svolte rispetto ad altri episodi legati alla mancata somministrazione della pillola RU 486.
Le illegittime negazioni non sono forse tentativi di esporre le donne alla negazione o restrizione del principio costituzionale della maternità libera e consapevole? Qui non è la mano di un compagno scelto a sopprimere, ma è la struttura pubblica alla quale si chiede, senza giudizio alcuno, soccorso e aiuto che limita l’esercizio di un costituzionale e legittimo diritto della donna.
E allora non è anche questo un modo per “ucciderla” emotivamente per ragioni misogine o sessiste, solo perché non si è adeguata ad un modello sociale predisposto, dal quale si è discostata e che forse la vorrebbe ancora fattrice silente e obbediente?
In questo come in altri aspetti, che riguardano il legame donna/maternità, non pare ancora compiutamente possibile scegliere di essere madri anche se single, non parliamo poi della pratica dell’affitto dell’utero: tutti aspetti questi che evidenziano sia un controllo formale, attraverso la previsione di una norma giuridica, che informale, attraverso il controllo sociale (norma sociale) con cui ancora una volta, è ristretto il diritto di una donna ad essere ciò che desidera diventare, per ritornare a dirlo alla Simone De Beauvoir, con evidente offesa del principio della libertà di autodeterminazione.
Nel bombardamento mediatico al quale assistiamo in questo nostro tragico periodo storico, l’immagine del “femminicidio”è sempre, forse volutamente per non disgelare altri scomodi contesti culturali- quelli che si desidererebbero ormai superati, fatti di omertà e residuati patriarcali, economici, sentimentali, religiosi- quella della donna uccisa nell’ambito domestico dal familiare, dal compagno, dall’amante rifiutato.
A mio modo di vedere così facendo si riduce e confonde concettualmente la categoria della violenza endofamiliare con la discriminazione di genere, che ha una pluralità di sfumature, e si cade in una contraddizione.
Se vogliamo la rivoluzione e sosteniamo da donne che ribellarsi sia giusto non è, a mio parere, sufficiente indignarsi solo per gli orrendi omicidi consumati all’interno delle mura domestiche o quando la paura abbandonica prevale, ma dobbiamo imporre il nostro tenace disconoscimento a tutte le forme e i modi con i quali giungiamo ad essere tutte, senza distinzioni di classe, “morte socialmente”, grazie anche al contesto culturale nel quale desideriamo vivere con pienezza.
Con questo non voglio assolutamente svilire il dramma delle uccisioni delle donne avvenute per mano di compagni, fidanzati, amici o mariti, anche questo anno, ma sostengo che questa non possa e non debba essere l’unica chiave di lettura se si vuole smantellare un sistema sociale e culturale che risente, a più livelli, ancora di un forte, forse più politicamente corretto ed adeguato, retaggio patriarcale.
Se continuiamo a confondere concettualmente le categorie rimarchiamo, a mio modo di vedere, lo stereotipo di donne tragicamente uccise solo nel livello del privato: quello congeniale alla donna, da sempre per noi pensato, nel quale si intende, ancora oggi, respingerci. Questo intendo dire quando affermo che la donna muore, simbolicamente, mille volte e con mille sfumature nell’attuale contesto sociale.
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