Appena pubblicato e molto atteso, il primo libro postumo della scrittrice, intellettuale e attivista Michela Murgia, Dare la vita (Rizzoli), a cura di Alessandro Giammei, figura già nella top ten dei libri più venduti.

Leggerlo e risentire la voce libera dell’autrice, che ci ha lasciati ad agosto, è tutt’uno. Pare anzi di vederla, in atteggiamento composto che pronuncia con estrema naturalezza parole dense, precise e destinate a far discutere, sempre.

Dettato ai suoi collaboratori più stretti e terminato mentre la malattia decideva la sua fine, questo pamphlet raccoglie e rielabora riflessioni degli anni precedenti, come precisa il curatore Giammei, oltre a un racconto (Altre madri) già pubblicato in un’antologia del 2008, e qui restaurato nella sua forma completa e inedita.

I fondamenti della famiglia secondo Murgia

Il libro indaga due questioni: la prima riguarda la famiglia queer dell’autrice, e la seconda, già oggetto di precedenti riflessioni, la Gpa, o gravidanza per altri.

In tutto il testo traspare una grande attenzione alla declinazione dei termini e non sorprende l’uso massiccio della schwa per sottrarsi al maschile generalizzato e dare un’impronta più inclusiva alle parole.

Il libro precedente, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), pubblicato nel maggio scorso, era il manifesto della sua malattia, un ritorno alla narrativa dopo molta saggistica, e al giornalista Aldo Cazzullo che sul Corriere della sera le poneva l’inevitabile domanda se fosse un libro autobiografico, aveva risposto: «É il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».

Dodici racconti che potrebbero anche essere letti senza conoscere la storia dell’autrice ed essere apprezzati per la loro compiutezza, per i rimandi tra loro che portano una simmetria senza rispecchiamento tra i personaggi e per l’ambientazione contemporanea che ne garantisce l’attualità e il coinvolgimento dei lettori.

Figli d’anima

Nel nuovo Dare la vita, Murgia affronta due temi a lei molto cari, come se non avesse avuto un orizzonte segnato, quasi come non avesse mai scritto della sua malattia, con un senso della vita, della società e del futuro che a dir poco sorprendono, pensando alla situazione che stava vivendo.

La copertina di Dare la vita di Michela Murgia, edito da Rizzoli, 2024.

Colpisce la lucidità, mai distaccata, anzi affettuosa, con cui narra della sua famiglia e dei suoi figli e figlie d’anima. Ma prima di tutto affronta il significato della queerness. Queer, strano, parola antica di secoli poi associata a omosessuale nel senso più dispregiativo e violento. Solo l’attivismo della comunità Lgbtqia+ ne ha ampliato semanticamente il significato connotandolo d’orgoglio di appartenenza.

Per Murgia la sua famiglia queer è composta da figli d’anima e la queerness, per usare le sue parole, è «La scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale».

La centralità dei legami

Una scelta che comporta molti rischi e innumerevoli difficoltà e tuttavia vale la pena di essere intrapresa perché il patriarcato, nella visione dell’autrice è «Un sistema di poteri patogeno dove le persone sono ruoli inamovibili, le relazioni dispositivi di controllo, i corpi demanio pubblico e i legami familiari meccanismi di deresponsabilizzazione».

Murgia propone un’altra strada: «Quel che dico contro la logica biologica del patriarcato eteronormativo di Stato – che identifica la maternità con la gravidanza e la famiglia col sangue – lo dico da madre d’anima, da membro di una famiglia fatta di legami altri».

Maternità, chiamata “stato interessante”, quasi fosse l’unico stato di interesse nella vita della donna, gravidanza confusa con maternità e responsabilità genitoriale. Termini usati di proposito per confondere, o per propaganda, su cui l’autrice assume una posizione chiara, come già fece nel racconto Utero in affido contenuto in Tre ciotole.

Il ruolo dello Stato non è proibire la Gpa

Tanti sono i nodi tematici affrontati e parlarne in ordine sparso comporta il rischio di sminuire l’importanza del messaggio che, quasi sicuramente, desiderava veicolare l’autrice.

La sua è un’analisi che non trascura neppure il dibattito interno al movimento femminista e a quanti chiamano “maternità surrogata” un processo che si rifà genericamente alla “natura”. Come se la maternità, dopo anni di lotte per l’affrancamento dal dovere sociale/naturale di procreare, si esprimesse unicamente a partire dalla gravidanza.

Per l’autrice la Gpa è assimilabile piuttosto a una gravidanza indesiderata, però portata a termine e dovrebbe essere governata dallo stesso principio che difende il diritto di aborto, a prescindere dall’accordo economico che sta a monte: le questioni economiche rese legittime per abortire dovrebbero essere tali anche per decidere di partorire per altri.

Con una premessa fondamentale, che Murgia esprime senza condiscendenza:

«Che poi lo Stato debba fare di tutto per rimuovere le ragioni economiche dell’una e dell’altra scelta è una questione di giustizia che riguarda noi tutte e tutti. Lo Stato e le sue politiche sociali, ma non la persona incinta e le sue scelte. Nessuna dovrebbe essere costretta ad abortire o a partorire perché ha bisogno di soldi, ma finché non saremo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono alle donne di scegliere di diventare o no madri secondo il solo desiderio, esse devono poterlo fare dentro un quadro di regole che le tuteli e tuteli chi da loro nasce. Chiedere che si faccia una legge per impedire la gestazione surrogata non soltanto non ferma lo sfruttamento, ma lo rende privo di limiti.».

©RIPRODUZIONE RISERVATA