Le immagini delle manifestazioni avvenute nel gennaio 2022 in Kazakhstan erano state particolarmente violente. Vedere questi uomini dal volto asiatico scendere in piazza, ribaltare automobili e scontrarsi con i freddi idranti delle forze di polizia nel contesto di una Astana innevata e con la temperatura a -22 gradi di media, portava senza dubbio una forte testimonianza delle loro istanze.

Un Qandy Qantar… inutile

Eppure oggi, a poco più di anno da quei fatti, poco è cambiato nel paese. Di quel gennaio, (“Qandy Qantar” o “Gennaio di Sangue” in lingua kazaka) oltre alle più di 200 vittime registrate nei primi 15 giorni dell’anno, rimane un solo cambiamento alquanto visibile ad occhi occidentali: il cambio “fattivo” di nome della capitale (formalmente adottato a Settembre 2022, ma di fatto portato in essere proprio dopo le proteste), che ritorna a chiamarsi Astana, abbandonando il personalissimo Nur-Sultan, sorta di “regalo della pensione” al padre della patria, Nur-Sultan Nazarbayev in occasione del suo ritiro ufficiale dall presidenza, nel 2019.

E il vecchio presidente Nazarbayev (ma sarebbe forse più corretto dire “Padre della Patria” visto che questo è ancora ad oggi il suo vero titolo) è il personaggio centrale rispetto agli scontri dello scorso anno.

Gli obiettivi dei manifestanti infatti, oltre alla cancellazione della tassa sul gasolio (parzialmente ottenuta, visto che oggi i kazaki pagano la benzina circa 240 Tengè al litro, poco meno di 1 euro), erano la revoca di una serie di privilegi e di impunità di legge per Nazarbayev ed il suo clan, attualmente intoccabili dalle corti giudiziarie locali, proprio in virtù del loro status di “Elbasy” ossia Padre della Patria.

In altri Paesi, il presidente in carica Tokayev si sarebbe assicurato di portare in dono alla folla la testa del vecchio Padre della Patria (magari parlando di pulizia anti corrotti o cose del genere), placando le proteste di piazza e rafforzando il proprio potere sul paese.

Tokayev invece (forse “consigliato” dall’ingombrante vicino Russo) ha optato per una soluzione morbida: chiedendo sì l’aiuto delle forze speciali di peacekeeping inviate da Mosca, ma acconsentendo pure ad alcune istanze della protesta, con Nazarbayev costretto alle dimissioni dal Consiglio di Sicurezza del Kazakhstan. Risultato: la protesta ha perso molta della sua forza, e Tokayev ha chiuso la partita annunciando nuove elezioni da svolgersi a Marzo di quest’anno.

Il Kazakhstan oggi

E dunque, che paese è il Kazakhstan oggi, a 18 mesi da quei fatti? Un paese oggettivamente gigantesco e scarsamente popolato, ricchissimo di risorse minerarie, gasifere e petrolifere (il cui frutto è stato ampiamente goduto dalla famiglia Nazarbayev come testimoniato da diverse inchieste internazionali), e con un rapporto strettissimo con l’ex madrepatria Russa.

Di fatto, il Kazakhstan è stato per moltissimi anni una costola della Federazione Russa stessa, visti gli svariati milioni di persone di etnia russa ancora residenti nel paese, anche se questo rapporto è andato progressivamente incrinandosi a partire dall’invasione in Ucraina del febbraio 2022.

Da un lato, l’immigrazione verso il Kazakhstan di giovani russi, al fine di evitare la coscrizione, è stata imponente: non ci sono ovviamente numeri ufficiali di questo fenomeno, ma nell’ultimo anno ha letteralmente riempito i centri di Astana ed Almaty di medioborghesi moscoviti con capacità di spesa nettamente superiore a quella dei locali, portando i prezzi delle case ad aumenti a tre cifre nel giro di un anno (le agenzie immobiliari hanno letteralmente colonizzato ogni angolo di Almaty negli ultimi mesi).

Dall’altro le recenti elezioni, oltre a certificare l’aspettata larga vittoria di Tokayev, hanno mostrato una certa propensione “nazionalistica” del votante kazako, con diversi partiti che puntavano sulla necessità di sentirsi pienamente (e solamente) kazaki, svincolandosi dal rapporto economico e politico con la Federazione Russa.

A tal proposito, fiutando l’aria, Tokayev ha assunto posizioni decisamente poco accomodanti verso la Russia; dichiarando all’inizio delle ostilità di non supportare il presidente Putin nell’invasione, oltre ad inviare aiuti umanitari all’Ucraina e ad avere pure alcune conversazioni telefoniche con il presidente Zelensky, al quale ha rivolto l’auspicio per una soluzione pacifica del conflitto.

Una questione linguistica ed economica

Appena atterrati ad Almaty, siamo stati colti da un pizzico di confusione nel leggere i cartelli che parevano beffare il nostro già traballante cirillico; il Kazakhstan infatti, da ormai alcuni anni, sta incentivando lo sviluppo della lingua locale, il Kazako, idioma di origine turca, il cui alfabeto presenta nove lettere aggiuntive rispetto al cirillico russo, facendolo apparire in tutti i cartelli ed i documenti ufficiali.

Le autorità hanno prospettato un passaggio completo alla lingua kazaka scritta in alfabeto latino entro il 2025, ma il progetto procede a rilento, anche perché la comprensione del kazako non è affatto scontata nella quota di popolazione russo-kazaka, abituata ad esprimersi in russo.

Il combinato disposto delle due lingue ha effetti a dir poco paradossali.

Se, in preda al jet-lag, decideste di cercare il sonno guardando un talk-show Kazako assistereste al conduttore che pone una domanda in kazako sottotitolato in russo, a cui un ospite risponde in russo, sottotitolato in kazako, subito imbeccato da un altro ospite che risponde a sua volta piccato in kazako.

La questione linguistica, che potrebbe parere di secondaria importanza, è invece centrale. In pochi forse ricordano come la certificazione dell’ucraino come unica lingua nazionale effettuata nel 2019 è stata uno dei baluardi ideologici dietro cui è nata l’operazione speciale russa del Febbraio 2022.

Il fatto di parlare un’altra lingua, ed in questo caso addirittura un altro alfabeto (per inciso, l’Uzbekistan vicino di casa ha terminato questo iter lo scorso anno e ad oggi le principali scritte informative sono in alfabeto latino) porta inevitabilmente all’identificazione di un popolo e di una nazione da lui abitata, respingendo quell’idea universalistica ed uniforme che caratterizzava la vecchia URSS.

Questo processo di “identificazione” sarà però inevitabilmente rallentato dalla struttura economica del paese.

In Kazakhstan, come del resto nelle altre repubbliche ex CIS, raramente troverete locali con ruoli direttivi nelle aziende principali del Paese; l’economia kazaka era, infatti, fino a metà degli anni ‘90 completamente inglobata in quella russa, viste le grandi risorse naturali presenti nel paese, che confluivano inevitabilmente nelle aziende a nord della pianura Sarmatica.

Nelle stanze dei bottoni infatti si parla ancora russo, e forse non è un caso che, per tranquillizzare questa importante “minoranza” del paese, il presidente Tokayev all’inizio delle rivolte abbia chiesto il supporto della CSTO (corrispondente russo alla forza d’intervento NATO); in questo modo ha fatto sì che le proteste evitassero una deriva “anti-russa” e non venissero prese di mira le aziende (moltissime) la cui proprietà fa capo a businessmen provenienti dalla Federazione.

Una tensione sociale da tenere a bada

Una leggera brezza serale finalmente scende dalle montagne innevate dello Yan Shen e spazza i viali di Alamty, sfidando la cappa di calore e smog che inevitabilmente ristagna sulla città.

Ma a parte le condizioni climatiche, non sono molte le differenze col gennaio dell’anno scorso. I cambiamenti intrapresi dal paese potrebbero essere giudicati troppo lenti, troppo timidi per convincere la popolazione.

E nonostante il Paese abbia le carte in regola per porsi come guida nell’intera Asia Centrale, con un’importante economia primaria, buone infrastrutture (almeno nelle grandi città) e una popolazione molto giovane, il potenziale conflitto sociale tra le due etnie (e anime) della nazione, quella russa e quella kazaka, rischia di indebolire questo sviluppo.

Al presidente Tokayev, uomo apparentemente privo del carisma del capo-popolo Nazarbayev ma politico dotato di una certa arguzia tattica, tocca l’arduo compito di gestire il conflitto etnico latente, mantenendo la tensione sociale sotto il livello di guardia.

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