Subito dopo l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani dell’ospedale di Pisa commesso da Gianluca Paul Seung, già paziente della dottoressa, in molti hanno auspicato la riapertura dei manicomi, l’internamento preventivo di pazienti pericolosi nelle Residenze di Esecuzione Misure di Sicurezza (REMS) e una completa rivisitazione della legge Basaglia.

Imputabilità e capacità di intendere e volere

Per prima cosa è importante chiarire che l’incapacità di intendere e volere non dipende da quanto efferato, inusuale o apparentemente inspiegabile sia stato il gesto compiuto, ma dipende esclusivamente dalla valutazione delle condizioni psichiche della persona nel momento in cui ha commesso il reato.

Come esplicitato nell’art. 85 c.p., il nostro Codice penale prevede che una persona non può essere punita per un reato se, al momento in cui ha commesso il fatto, non era imputabile, ossia non era in grado di intendere e di volere. Da qui ne deriva che nel caso venisse accertato che un individuo non aveva nessuna di queste due facoltà si parlerà di vizio totale di mente (art. 88 c.p.), altrimenti, in assenza di una sola, si tratterà di vizio parziale (art. 89 c.p.).

Tuttavia, anche se non imputabile, nell’eventualità che una persona fosse ritenuta socialmente pericolosa di fronte alla necessità di cura, di tutela e controllo del rischio psicopatologico verrebbero applicate le cosiddette misure di sicurezza che, nel caso in cui il pericolo fosse valutato di grado elevato si realizzerebbero con l’internamento in REMS.

Il ruolo delle REMS

Le REMS accolgono, quindi, persone sulla base del loro rischio di pericolosità e della necessità di cura. La “e” che congiunge questi due criteri è, purtroppo, di frequente dimenticata, diventando, può o meno volutamente, una “o” disgiuntiva. È, invece, fondamentale comprendere che non dovrebbero essere solo una struttura detentiva, né solo un luogo di cura, ma devono rispondere, contemporaneamente, a esigenze sia di trattamento terapeutico che di sicurezza. In altri termini, non dovrebbero essere luoghi di segregazione di persone indesiderate nelle strutture carcerarie né strutture dove sottoporre a terapia pazienti che i servizi di psichiatria non riescono a gestire.

Il problema della gestione delle REMS

Il dibattito riguardo la complessità nella gestione degli accessi alle REMS non è nuovo. Già con la sentenza n. 22 del 2022 della Corte Costituzionale, sebbene con scarso interesse mediatico, erano già state messe in luce carenze e problematiche nella gestione delle misure di sicurezza per persone con patologie psichiatriche gravi. Disputa centrale è quella che riguarda il soggetto amministrativo che dovrebbe essere deputato alla gestione delle REMS: infatti, sebbene l’art. 110 della Costituzione affidi al Ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi all’ambito giuridico, la REMS fanno capo, invece, al sistema sanitario.

Questo dibattito non ha rilevanza solo dal punto di vista amministrativo o legislativo, ma ha ripercussioni molto più capillari e pragmatiche che determinano la disponibilità di fondi e strutture che, a loro volta, incidono sulla qualità del servizio e sulle possibilità di accesso allo stesso. Carenze, queste, esemplificate dagli esiti della istruttoria intrapresa con l’ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021 dalla quale è emerso che la lista di attesa per l’accesso alle REMS comprende tra le 670 e le 750 persone; cifra, questa, pari al numero di individui già attualmente ospitati, preso le medesime strutture presenti su tutto il territorio italiano.

Le REMS non sono una soluzione preventiva

Sebbene ci siano, quindi, degli evidenti problemi gestionali e legislativi, aumentare il numero di posti non è la soluzione per evitare che deprecabili eventi come l’omicidio della dott.ssa Capovani si ripetano.

Come è stato infatti sottolineato, le REMS entrano in scena solo dopo che la persona ha commesso un reato: non hanno uno scopo di prevenzione primaria. Sarebbe invece auspicabile un potenziamento dei servizi territoriali di cura permettendo una migliore presa in carico delle persone che soffrono di disturbi mentali.

Questo richiede però il superamento di una cultura psichiatrica, dettata anche da una penuria di risorse umane ed economiche, che si sta arroccando sempre più su un concetto di cura burocratizzato e farmacologico tale per cui molti pazienti si rapportano al centro di salute mentale solo in occasione dell’assunzione di farmaci long acting una volta al mese. Perciò, “l’internamento preventivo” significherebbe solo togliere dalla vista della società persone che, afflitte da un disagio psichico, sono spesso già in una situazione di emarginazione e isolamento. Al contrario, potenziare i servizi territoriali che si occupano di salute mentale è l’unica vera strada percorribile per garantire la cura e realizzare una efficace prevenzione del rischio.

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