In occasione della Giornata della Memoria, lo scorso 27 gennaio, l’associazione “Fuori Tempo” ha organizzato un evento particolare, utilizzando modalità innovative e di forte presa sui giovani. Nell’aula magna dell’istituto superiore “Marco Minghetti” di Legnago si è infatti ricreata l’esperienza del campo di prigionia attraverso una vera e propria escape room. Si tratta di un’attività che combina input multi-sensoriali alla risoluzione di indovinelli o giochi enigmistici, fino a trovare la “chiave” che permetta di liberarsi dalla stanza in cui si è rinchiusi.

L’idea iniziale di un progetto per parlare di shoah viene alla ex professoressa Annarita Fazzitta, che ci racconta del suo viaggio-studio a Terezin, città fortezza vicino a Praga usata dai nazisti prima come ghetto ebraico e poi come campo di concentramento.

Fazzitta rimane impressionata dalla storia peculiare del luogo e decide di proporre il tema al suo gruppo di «anziani creativi che non sanno stare fermi», persone mature che credono nella intergenerazionalità e da anni progettano iniziative per le scuole di ogni grado, cercando sempre uno strumento efficace e accattivante per informare su temi come bullismo, cyberbullismo e un sano uso di internet.

E così Annarita porta l’ambientazione, Anna Dora ha l’idea del contesto dell’escape room e il regista Alvise crea una sceneggiatura completa per la fuga da Terezin.

Terezin, lager “modello” anche per la Croce Rossa

Terezin è un campo unico nel suo genere, dove sono stati imprigionati un gran numero di bambini (si parla di 15.000, di cui meno di 2.000 sopravvissuti allo sterminio) ma anche alcune tra le menti più brillanti del tempo nelle più disparate forme artistiche. È il lager dove Hitler gira il noto filmato propagandistico, che vuole mostrare le condizioni quasi idilliache degli ebrei nei campi, tra camerate da pochi letti, rappresentazioni teatrali, scuole per i bambini e bande musicali. Ci sono perfino i fiori alle finestre.

La messinscena nazista per l’ispezione della Croce rossa internazionale nel ghetto di Terezin includeva la finzione di diversi intrattenimenti per gli ebrei. Le persone in foto probabilmente stavano guardando una partita di calcio. Cecoslovacchia, giugno 1944, Comite International de la Croix Rouge.

L’arrivo di un gruppo di ebrei di origini danesi e le pressioni esercitate da quel governo per capire come funzionassero i lager (forse l’unico Stato a fare domande formali in tal senso) provocano un fermento di attività, tra tinteggiatura delle abitazioni, creazione di un cinema-teatro e l’allontanamento preventivo di decine di migliaia di ebrei ad Auschwitz, in modo da contenere il numero dei residenti a numeri giustificabili. La visita ufficiale della Croce Rossa non può che certificare le buone condizioni di vita nel campo e resta nella Storia come testimonianza di come la propaganda mediatica possa dirigere l’opinione pubblica.

Una escape room per capire la follia della shoah

La sceneggiatura della escape room realizzata a Legnago riporta le due classi di prima superiore, divisi in quattro stanze diverse, in un contesto di paura e disperazione, con contributi sensoriali a tutto tondo. A fare da voce narrante, lo spirito di due bambini che il regista immagina prigionieri e poi eliminati nei campi. Ai ragazzi vengono forniti elementi visuali, sonori e giochi d’ingegno da cui poter dedurre le quattro parole chiave successive: dalla paura, associata alle sirene antiaeree, si passa alla solidarietà, espressa nelle poesie dei prigionieri, che i ragazzi leggono ad alta voce. Dall’amicizia, ispirata dalle canzoni del coro dei bimbi di Terezin, si arriva alla speranza, la chiave che permette infine di uscire dalla prigionia dell’odio.

Sperimentare la storia oltre il programma scolastico

Fazzitta ha scelto il suo vecchio istituto per la conoscenza e vicinanza che ancora la lega ai professori attuali, certa che avrebbero «preparato al meglio i ragazzi, anche se ancora lontani da questi temi nel programma di prima superiore. Avremmo voluto una terza media – racconta – ma non c’erano i tempi per inserire l’iniziativa nel piano dell’offerta formativa. Ci riproveremo l’anno prossimo, sperando di poter allargare la platea all’intera provincia di Verona».

Le docce al campo di concentramento di Terezin, foto di Ismael Alonso, Flickr, CC BY-NC-ND 2.0.

La preparazione dei ragazzi si è resa evidente dalla grande partecipazione durante la fase di restituzione finale, curata da Agata La Terza, ex professoressa di storia e ricercatrice presso l’Istituto veronese di storia della Resistenza e dell’Età contemporanea. Ci racconta di «livelli di attenzione superiori al solito, con interventi e domande, riflessioni notevoli e i segni evidenti che l’esperienza aveva toccato molti di loro».

Un crimine alla luce del sole

Un tema nato proprio dal caso di Terezin ha riguardato una sorta di incredulità dei ragazzi per come i rastrellamenti, i convogli degli ebrei e gli stessi forni fossero tutte cose che avvenivano alla luce del sole. «L’Europa aveva le ricognizioni aeree, – racconta La Terza – i campi erano ben visibili nelle fotografie, perfino i camini fumanti. Ma si è lasciato fare. Si è evitato di collegare i puntini di tanti fatti evidenti per non arrivare a vedere il quadro completo. Ho citato come esempio l’italianissima Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, un campo da cui sono passati migliaia di ebrei destinati ai campi, vi sono stati torturati e uccisi oppositori politici e partigiani. Era collocato in centro città e aveva un forno crematorio funzionante. Possibile che nessuno in città annusasse l’aria?»

Fare memoria con le nuove generazioni

Le due professoresse concordano pienamente sulla «necessità di trovare una terza via per raccontare certi temi e questa parte della Storia, diversa dalla semplice didattica di nomi, numeri e date ma anche dalla narrazione dei testimoni, di grande impatto ma obiettivamente sempre più complessa con il passare di tanti anni. L’approccio immersivo ha permesso di vivere un’esperienza molto soggettiva, per poi ricavarne coordinate ben definite dal punto di vista storico.»

Il sostegno dello Spi Cgil è stato fondamentale per la realizzazione del progetto, in uno spirito collaborativo che, secondo Fazzitta, «prosegue felicemente da molti anni, in un impegno da parte di tutti affinché prevalgano e vengano trasmessi alle nuove generazioni i valori universali di pace, rispetto e tolleranza. Declinati in tutte le tematiche più vicine ai giovani, come in questo caso, ma anche per altri anziani “fuori tempo” come noi.»

Ricordare non significa imparare a memoria

«Questa modalità amplifica la dimensione emozionale, fissa il ricordo – evidenzia La Terza -. Ritengo sia un’opportunità da coltivare, anche se non può sostituire il metodo didattico. Non parlo della lezione cattedratica, che chiede solo di imparare a memoria e che serve solo a risolvere il problema del “programma”, ma annoia i ragazzi e soprattutto è sbagliata dal punto di vista storiografico. Ci sono altre soluzioni, che prevedono la raccolta e il confronto di documenti, una fase di discussione critica. Si può lavorare su temi specifici in questo modo, valutando i contenuti del libro di testo e come vengono esposti.»

Zachor! è la parola ebraica che indica la memoria attiva, la volontà di mantenere vivo un ricordo attraverso la ripetizione di gesti e il racconto di avvenimenti. E i ragazzi di Legnago forse racconteranno ai loro figli di quando sono riusciti a fuggire dal campo di concentramento di Terezin, per qualche ora trasportato nello spazio-tempo nell’aula magna della loro scuola.

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