L’invasione russa in Ucraina ha avuto molteplici conseguenze per gli Stati dell’Unione Europea. Ci siamo dovuti confrontare con qualcosa di previsto soltanto nei carteggi dei grandi Generali Nato, nei loro sogni più remunerativi probabilmente. La crisi Covid, prima, e la guerra ai confini dell’Europa, poi, hanno causato, tra gli altri ben più drammatici effetti, anche il proliferare di concetti macroeconomici e finanziari che prima erano esclusivi degli ambienti accademici e degli addetti ai lavori.

Proviamo a capire meglio di cosa si tratta cominciando dalle diverse azioni che la UE, gli Usa e qualche altro Paese hanno intrapreso per indurre la Russia a modificare i propri comportamenti, non solo i più recenti e violenti. Nel tempo si sono viste iniziative di diversa natura.

Le sanzioni (lett. conseguenza giuridica negativa a un comportamento illecito)

L’amministrazione Obama istituisce la politica della sanzione finanziaria, individuando nella lista OFAC (Office for Foreign Assets Control) il modo per controllare i pagamenti in dollari. Questo avviene nel periodo in cui USD è la divisa di gran parte delle transazioni internazionali. Inizia a circolare il termine Compliance per indicare tutti gli adempimenti che una banca, e a cascata ogni cliente, deve compiere e raccogliere per operare in dollari, pena l’esclusione dal circuito. E dal sistema finanziario.

Un modo semplice ed efficace per raggiungere un risultato, che viene adottato anche dalla UE in occasione dei diversi interventi contro la Russia, ben prima dell’invasione: si vanno a colpire figure apicali, poi alcune aziende e settori merceologichi (idrocarburi), per poi allargare la platea dei pariah a tutti gli oligarchi e ai loro beni. Fino al limite non immaginabile di congelare le riserve del Paese all’estero.

Funzionano? Sì. E no. L’esempio di Lukoil, della sua raffineria italiana, a Priolo, è piuttosto emblematico. Lukoil non è soggetta a sanzioni ma le banche, per timore di sanzioni a loro carico, le hanno bloccato il credito e non può più acquistare il greggio da raffinare sul mercato internazionale (che prima contribuiva per l’80%) bensì solo dalla Russia. Ora sembra tutto sistemato, Mr OFAC ha alzato il pollice ma, paradossalmente, a causa delle sanzioni contro la Russia, l’Italia ha di fatto moltiplicato le sue importazioni da là.

Embargo: una sanzione extra-banca

(spagnolo – lett. ostacolo, impedimento)

Il 5 dicembre è entrato in vigore un vero e proprio embargo contro il petrolio russo via nave verso la UE. Solo gli oleodotti continuano a lavorare, beh, quelli che ancora sono operativi. Succederà che le navi russe troveranno altre destinazioni, asiatiche ad esempio. Si potrebbe anche realizzare una sorta di doppia catena di fornitura: una dalla Russia all’Asia e un’altra dall’Asia all’Europa, chi lo sa. Tanto il greggio è tutto uguale, no?

Greggio russo e, ad esempio, americano non sono intercambiabili; ogni raffineria ha bisogno di materie prime con determinate caratteristiche per essere efficiente e sono prevedibili contraccolpi alla produzione. Tranquilli, ci siamo già passati con la Libia, che in poco è stata sostituita dal petrolio azero. Troveremo un petrolio simile o adegueremo i nostri impianti.

E a febbraio?

L’embargo di febbraio sembra più preoccupante, in quanto va a toccare i prodotti raffinati, quel diesel che costa quanto il platino e di cui l’intero mercato globale è al momento “corto”. Le politiche green hanno portato i Paesi evoluti a contenere gli investimenti nell’industria sporca, con la UE che ha addirittura ridotto la propria capacita di raffinazione, specie per i prodotti pesanti (e quindi più sporchi). Siamo quindi autosufficienti per le benzine ma importiamo 1,5 milioni di barili di diesel al giorno, 600.000 ancora dalla Russia.

Poca offerta (seppur in aumento entro l’anno prossimo a livello globale) porta sempre a prezzi elevati, come si è visto chiaramente l’estate scorsa per il GPL. Solo che il diesel è il carburante di tutta la logistica globale e – se davvero si procederà come previsto per febbraio – sono da mettere in conto problemi sia in termini di supply chain, sia di prezzo. Vogliamo sperare di non arrivare a scoprire come andrà.

Price cap

(inglese – lett. tetto al prezzo)

Questo è forse il termine più abusato di questi ultimi mesi. Politici di ogni colore a invocare, promettere e sperare in un limite imposto dalla UE al petrolio e al gas dalla Russia. Peccato che come viene spesso raccontato sia impraticabile, impossibile, pura utopia – se non vogliamo scomodare la demagogia. Se un acquirente, per quanto importante come la UE, mette un limite al prezzo, il venditore semplicemente si rivolge ad altri, che operano a libero mercato.

Al di là della retorica che gira in Italia, l’unico modo per vincolare indirettamente la Russia è di intervenire sugli spedizionieri e sulle compagnie di assicurazione, elementi indispendabili di un carico internazionale e in larga parte residenti in Europa, quindi meglio controllabili nell’esecuzione dell’embargo.

Piccolo problema: questi soggetti, a cui viene proibito di fornire servizi se il greggio viene venduto oltre un certo limite, non sono in realtà tenuti a conoscere il prezzo della merce che spostano o assicurano. Non ne hanno l’obbligo e tantomeno il diritto. Se tutto gira quindi sulla base di affidabili autocertificazioni, l’unico fastidio che ne può derivare alla Russia è trovare alternative gradite ai paesi d’importazione.

Si vocifera di una flotta acquistata tramite intermediari del Golfo, di assicurazioni extra UE accettate ad esempio dalla Turchia, che è sempre in quella posizione lì, molto comoda. Ma un paese con una produzione di 8 milioni di barili al giorno non può contare su rattoppi di fortuna o sul contrabbando. Ha bisogno di un mercato, che al momento non c’è.

Effetti delle tre azioni combinate

Compliance alle sanzioni, embargo e price cap sul greggio (per quanto annacquato) cominciano a mostrare i primi effetti. Da un lato, le quotazioni non hanno risentito del taglio di produzione OPEC e nemmeno delle nuove disposizioni in vigore dal 5 dicembre: il giorno seguente, il prezzo del brent è sceso sotto 80 dollari per la prima volta da gennaio e ancora viaggia su quel livello. Il mercato ha insomma ben digerito la novità. Un po’ meno la Russia, costretta a vendere a forte sconto le quantità che non riesce a collocare in Europa pur di garantire la copertura finanziaria all’invasione in Ucraina.

L’Autorità Internazionale per l’Energia riporta che in settembre le entrate petrolifere per Mosca fossero al minimo storico (14,7 miliardi di dollari). A novembre, nonostante lo sforzo produttivo (oltre 8,1 milioni di barili al giorno), si segna il secondo peggior risultato del 2022. Se il trend prosegue, la Russia dovrà davvero fare i conti con la realtà.

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