«La degustazione è un incontro, un rapporto nel quale accogliamo l’altro, il vino, nella sua interezza, dove è impossibile scomporne l’essenza valutando solo pochi aspetti parziali: il vino è un’altra vita con la quale entriamo in contatto e che si collega con noi, nuda di fronte a noi, il riflesso di chi siamo».

È questo uno degli aspetti centrali del nuovo approccio alla degustazione del vino nella filosofia di Porthos, ma allo stesso tempo è, in qualche modo, anche la sensazione che si prova nel conoscere Sandro Sangiorgi: un viaggio che ti attraversa, passando da molteplici aspetti del mondo del vino ma dove è impossibile parlare solo di vino, e dove è impossibile non coinvolgere la propria soggettività e le proprie emozioni, in relazione con l’altro.

Nel mondo del vino da quarant’anni, tra i fondatori di Arcigola da cui poi nascerà il movimento Slowfood, Sangiorgi è colonna portante del progetto Porthos, cui ha dato vita, a fine anni Novanta, in reazione a una lettura contemporanea del settore sentita come non più aderente ai cambiamenti in fermento della realtà del vino e della viticoltura di quegli anni.

Casa editrice di diverse pubblicazioni e dell’omonima rivista, di cui è uscito l’ultimo numero, il 37, nell’ottobre 2020, Porthos oggi è una associazione che porta avanti da ormai più di un ventennio, oltre alle produzioni editoriali, un progetto didattico con uno sguardo e un approccio di rottura rispetto alla concezione di vino e della classica degustazione tecnica, abituata a valutare e scomporre il bicchiere semplicemente in colore, odore e sapore.

Nei vini “vivi”, quelli non legati alla produzione convenzionale, secondo Sangiorgi, possiamo invece percepire e scoprire molto di più. La naturale conseguenza di questa scelta di rottura ha condotto Porthos a seguire i passi e l’evoluzione del movimento del vino naturale, considerandolo come “unico vino possibile”.

Sangiorgi, dopo tanti anni in cui è mancato a Verona, come ha accolto la richiesta di condurre una degustazione in occasione di Tell me wine? Come è nata questa collaborazione?

«Ho accolto con estremo piacere la proposta di Andrea Fiorini Carbognin (produttore di vino naturale in Soave n.d.a.) di tornare a Verona per tenere una degustazione a Tell me wine. Io e Andrea ci conosciamo da circa una decina d’anni: ricordo il suo primo vino, l’avevo assaggiato poco prima che uscisse sul mercato. Anche se mi è capitato di tornare nella provincia veronese per altre manifestazioni, dal centro città manco davvero da tanto. Con Verona ho un rapporto particolare e le sono molto affezionato, l’ho vista la prima volta nel 1979, poi vi ho abitato per anni: alla fine dei Novanta e a metà Duemila, tra Soave, San Bonifacio e la Valpolicella. Verona ha delle peculiarità uniche rispetto al mondo del vino: è affiancata da due territori, uno a nord ovest, la Valpolicella, l’altro a oriente, Soave, che da soli sarebbero l’orgoglio per qualsiasi provincia, regione o nazione del mondo.

Basta salire le colline da Negrar a Torbe e da Torbe fino a Mazzano per rendersi conto di che spettacolo di viticoltura ci sia – tralasciando le disgrazie occorse da quando l’Amarone è diventato molto richiesto a livello mondiale, ma sono cose che hanno a che fare con la storia recente. Verona è un luogo dove ti rendi conto di essere avvolto da un’idea di vino che può realizzarsi in un’idea di “vino buono”. Quando i produttori naturali scelgono di partecipare a fiere o di organizzarne, cercano sempre e comunque di “prendere” dalla città, di farsi contaminare. Non puoi uscire da Verona senza Verona, nel senso di respiro, di sentimento, di aura, di cose che hanno a che fare con il proprio amore per il vino. Per questo motivo è un luogo molto importante per il vino al di là di Vinitaly e da molto prima che nascesse».

PORTHOS
Porthos, ovvero ribelle, nobile e disperato, come il più indimenticabile dei tre moschettieri

Domanda sicuramente ricorrente ma d’obbligo: cos’è il vino naturale per Sandro Sangiorgi?

«È il prodotto del lavoro di una persona, una famiglia, una comunità, una cooperativa che cura, segue e custodisce la vita dalla vigna al calice senza gravi interferenze, e i produttori sanno benissimo cosa intendo con “gravi interferenze”.

Al momento non esiste un disciplinare per il vino naturale, ma non ha senso normare ora, perché il movimento è troppo recente: probabilmente, pian piano, unendosi, saranno i produttori ad auto-normarsi, creando un prontuario che saranno loro stessi a voler seguire, partendo dalla vigna fino alla cantina. La rivoluzione infatti non è in cantina, ma in agricoltura. E i certificatori non saranno “esterni”, dovranno essere gli stessi produttori a controllare i colleghi e a venire a loro volta verificati. Un’organizzazione professionale che si auto gestisce, convinta che le aziende alle prime armi vadano aiutate a entrare. Ma poi nessuno può mentire: non c’è nulla di male, in un’annata difficile, dichiarare di essersi fatti aiutare in un modo appena al di là delle norme. La trasparenza rafforza il movimento».

Quali sono le caratteristiche e le necessità di sviluppare una nuova modalità di degustazione? Perché trova limitanti le schede sensoriali utilizzate per la valutazione del vino?

«Quando degustiamo un vino ci rapportiamo a lui, e lui a noi. Il vino è vita, e il nostro è quindi un incontro con qualcosa di vivo. Come in un rapporto amoroso ci uniamo al nostro partner in modo totalizzante, senza scomporlo e frammentarlo nelle sue varie caratteristiche, ma accogliendo tutto e valutando tutto, così nel vino: come possiamo concentrarci solo su alcuni aspetti limitati? La mia convinzione è che ci stiamo accontentando di leggere il vino in maniera troppo elementare (esclusivamente per colore, odore, sapore e sensazioni finali) mentre dovremmo invece cercare dentro di noi altre risorse sensoriali, come l’energia che ci trasmette o ci sottrae, la sua aura, o al contrario l’assenza di poteri, che caratterizza praticamente tutti i vini convenzionali, perché il vino convenzionale manca di un pezzo.

Può anche avere, infatti, un impatto potente dal punto di vista odoroso e gustativo, ma dobbiamo sempre chiederci: tale impatto è una manifestazione superficiale o dietro a queste prime sensazioni ci sono una vera forza e una sua unità? È questa una delle differenze tra vino convenzionale e naturale. Va valutato, poi, il tempo che decorre dopo il nostro incontro con il vino, dobbiamo vedere cosa succede, se ha una trasformazione nel calice come dentro di noi. Come si rapporta con il nostro corpo? Quanto è digeribile? Quanto ci ha fatto stare bene nelle ore seguenti l’assaggio? Ci ha tolto energie?

Questa è una delle ragioni per cui non ha assolutamente senso, ed è un errore che ho fatto per molto tempo, fare un eccessivo numero di assaggi al giorno. Nell’arco delle 6 ore non bisognerebbe mai degustare più di 24 vini. Anche il lato sentimentale è fondamentale, un aspetto che manca totalmente in tutte le scuole enologiche. Abbiamo lavorato sulla sensorialità, ma non è sufficiente. Recenti studi di neuroscienza hanno appurato che, quando si ha a che fare con il vino, è la parte emotiva, la corteccia intermedia, che reagisce di più.

Il 70-75% della comprensione del vino passa di là, quindi chi pratica solo le degustazioni tecniche, che escludono il sentimento, affronta il vino usando soltanto il 25% del suo potenziale. Magari possono sembrare credibili, ma non lo sono, poiché incontrare il vino solo dal punto di vista tecnico è come “spezzare una parte di sé”».

Una bottiglia coperta in degustazione (che svela un po’ il suo collo)

Qual è il suo rapporto con la didattica e perché la scelta di fare sempre e solo degustazioni a bottiglie coperte?

«La degustazione di sabato, per numero di partecipanti, è un po’ anomala per me: di solito cerco sempre di non superare la ventina di persone. Questo perché si tratta di un lavoro di interazione con gli altri. Quando comincia la fase di degustazione, dopo la parte introduttiva, faccio sempre parlare gli allievi e le allieve, e solo successivamente intervengo io. Per me la degustazione è sempre e solo a bottiglie coperte. Questo mi consente di essere più partecipe con chi ho di fronte. Non conoscere nemmeno io la sequenza delle bottiglie mi evita sia un’influenza forte sia il suggerire inconsciamente qualcosa.

La chiave fondamentale dell’apprendimento di quello che la degustazione può insegnare è infatti la soggettività, l’autonomia e la capacità di non farsi sollecitare da stimoli che ci allontanano dai nostri sensi. Sarebbe grave se io parlassi di caratteristiche produttive di un determinato vino prima che le persone lo possano degustare. Una delle regole basilari dell’attività di un innamorato del vino, che non è solo un degustatore quindi, ma è tutto insieme, è che nel vino c’è tutto quello che lui sente. Dunque “se tu senti questa cosa nel vino, vuol dire che c’è”.

Parlare, confrontarsi con i vicini durante il primo contatto con il vino, in degustazione, è una sconfitta culturale e della propria autostima: è veramente imperdonabile. Il vino è individuale e individualista, noi siamo individuali e, visto che la soggettività ha un ruolo fondamentale, ognuno si deve innanzitutto segnare tutto quello che gli viene in mente, e se Sangiorgi ti ha detto che tutto quello che senti c’è, puoi stare tranquillo. Una volta finito di scrivere, chi se la sente può parlare di quello che ha sentito, confrontandosi liberamente. Quando sono io a chiedere a un allievo di parlarmi di un vino, spesso il suo primo gesto è quello di riprenderlo in mano. Mai farlo. Perché il vino un po’ è certamente cambiato, ma tu pure sei cambiato.

La cosa bella dei vini naturali è che ti permettono di fare queste degustazioni, perché si trasformano nel calice, non si inaridiscono, hanno questo movimento imprevedibile, si muovono portandosi sempre dietro un piccolo mistero, tu lo insegui, ti sembra di averlo acchiappato e poi a un certo punto il vino te ne mette un altro. È un gioco delle parti, una specie di teatro amoroso, che si stabilisce tra noi e il liquido, ecco perché la soggettività è importante».

Il mondo del vino naturale sta attraversando una crisi, dovuta al suo grande sviluppo di questi ultimi dieci anni. Già nel 2009 lei firmava un testo, poi divenuto manifesto di Vini Veri 2022 (manifestazione di vini naturali svoltasi a Cerea n.d.r.), nel quale affermava: «Molti produttori si stanno pericolosamente abituando a imperfezioni tecniche, considerandole peccati veniali o, ancora peggio, aspetti caratteristici dei loro vini […] stiamo passando al paradosso mostruoso di chi considera la competenza tecnica un ostacolo alla realizzazione del liquido odoroso, quasi che meno si sa e meglio si riesce».
Una riflessione di più di dieci anni fa, che resta ancora spaventosamente attuale. Questo problema di percezione e riconoscimento della qualità, spesso confusa con la genuinità del vino a cui “non è stato fatto nulla”, come si pone, in prospettiva, per lo sviluppo del movimento dei vini naturali?

«Purtroppo c’è un gran numero di questi nuovi produttori, che oggi stanno guadagnando sugli sforzi e il coraggio di chi ha cominciato a fare vino naturale nel ‘95-’96. Ma che non hanno avuto, o non avranno mai, la possibilità di imparare o di sbagliare per riuscire a fare un vino buono.

La grande differenza con i primi, e parlo dei Gravner, Maule, Radikon e i tanti che negli anni hanno avuto il tempo e la pazienza di imparare dai propri errori per arrivare ai grandi risultati di oggi, è che questi ultimi non possono nemmeno più permettersi di “sbagliare”, magari perché un distributore ha già piazzato il loro vino in un ristorante di grido e si sentono già mezzi arrivati. Magari perché hanno aperto un mutuo o fatto degli investimenti che non gli consentono più di buttare nello scarico una vasca in cui è sfuggita la fermentazione.

Una volta se un vino non veniva lo buttavano. Questi nuovi produttori possono mettere in bottiglia qualsiasi cosa, e spesso hanno pure un certo consenso, poiché c’è una schiera di persone, magari proveniente dal mondo della birra artigianale o dei superalcolici, che nei vini naturali difettosi realizza uno dei suoi grandi obiettivi, ovvero bere e “farlo strano”.

Basti vedere che successo hanno in Italia e all’estero certi vini che per persone come me, che sono cresciute in un certo modo, sono totalmente inaccettabili. Non ho idea di cosa succederà: sta di fatto che costoro dovranno prima o poi decidersi a studiare, ad aprire un libro di microbiologia. Devono smettere di pensare che “il vino si fa da sé” e usarci come cavie prima di imparare».

Un’illustrazione della graphic novel Gli ignoranti. Vino e libri: diario di una reciproca educazione di Étienne Davodeau

Come possiamo, quindi, distinguere l’estremismo di “ricerca” dall’estremismo di “incapacità”? O meglio, come riconoscere un difetto vero?

«Abbiamo una grande arma e opportunità, dobbiamo imparare a bere, degustare e assaggiare. Ad esempio prendere in esame il vino nella sua trasformazione. Può capitare di trovare nel bicchiere degli impatti odorosi un po’ drammatici, ma dopo 4 o 5 minuti di delicati movimenti del calice, senza accanirsi, ho notato come alcuni odori diventano tessere di un mosaico bello e molto vario.

Il vino è come una persona, e quindi se è mezzo addormentato, oppure quel giorno non c’ha voglia, non serve a nulla sbattere il calice. A volte più lo fai e più quel vino si chiude, oppure si strappa. Ogni vino merita quei 10-15 minuti perché si capisca dove andrà. E quell’impatto odoroso scomposto che evoca sentori organici che vanno, per esempio, dalla terra fino alla stalla, dopo pochi minuti deve cominciare a darmi dei segnali. Non può implodere perché allora, a questo punto, se quella sensazione iniziale diventa obnubilante vuol dire che il vino è malfatto o difettoso.

Magari il motivo non è malafede produttiva. Può essere semplicemente che il produttore abbia sottovalutato delle cose, ad esempio non ha messo la solforosa pensando che il vino ce l’avrebbe fatta da solo, o magari dopo un viaggio.

La solforosa è un ottimo stabilizzante anche a minime quantità, però è chiaro che cambia un po’ il profilo del vino. Quando ci vedremo a Verona dirò qualcosa su questo argomento: perché ci sono dei produttori che proprio non vogliono abbandonare questa idea di non aggiungere la solforosa, anche quando i loro vini sono evidentemente inclini al difetto. Una motivazione abbastanza credibile c’è».

L’invecchiamento di un vino naturale è spesso visto con un po’ di sospetto: verità e falsi miti nell’esperienza “sangiorgiana”.

«L’invecchiamento non è una discesa, una china. Non è nemmeno una parabola o una curva a campana. Quando si entra nell’età matura si capisce invece che è una trasformazione, e più precisamente una trasformazione di talenti. È la stessa cosa per il vino. Il talento trasformato è guardare il mondo con un altro occhio, può essere ad esempio il capire il valore della lentezza, o percepire le cose più profondamente e intensamente.

calici e mondi interconnessi

Ci sono persone che appena percepiscono qualcosa di meno giovane in un vino, sottolineano con un certo disprezzo che quel vino “sta calando”. Al di là del fatto che il vino apre e chiude finestre, va in letargo, si risveglia e fa cose in bottiglia, se un vino è buono, dal punto di vista della longevità, è molto più interessante nel tempo. Nei confronti di coloro che sostengono che i vini naturali non siano durevoli nel tempo, mi sono preso delle soddisfazioni incredibili di recente: ho assaggiato vini naturali di 20-25 anni che hanno proprio spazzato via, con una classe, una capacità di trasformazione nel calice, vini convenzionali che si erano completamente arenati, induriti, imborghesiti, e questo per il fatto che erano stati prodotti senza la libertà, senza seguire il filo della vita che c’era nel vigneto. Un vino del genere dura e trasforma il proprio talento in maniera molto più bella e sorprendente».

Porthos è, ed è stato, un punto di riferimento per tantissime voci del mondo del vino, italiano e non solo. Ha avuto una portata sovversiva nella vita di molti divulgatori, un punto di svolta del loro modo di vedere il vino. Cosa può dirci dell’esperienza di Porthos dopo quasi 25 anni di attività?

«Le soddisfazioni sono tantissime, ma è sicuramente un progetto che costa fatica, tempo e dedizione. Per lavorare con Porthos un po’ si sceglie di soffrire, e ognuno deve capire quanto e per quanto è disposto a farlo. Porthos è una scelta impegnativa. Un po’ come la scelta del vino naturale, che è una scelta di vita. L’unica cosa che posso dire è che non ho ancora trovato una persona che abbia scelto il vino naturale e poi sia tornata indietro».

Un po’ di cose da leggere per gli innamorati del vino e per chi ha voglia di approfondire la conoscenza di Sandro:

L’invenzione della gioia di Sandro Sangiorgi
Gli ignoranti di Étienne Davodeau
Il vino tra cielo e terra di Nicolas Joly
Porthos Trentasette AA.VV.
L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert

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