La morte di Mahsa Amini, lo scorso 16 settembre, ha scatenato una protesta popolare in Iran che ancora oggi non accenna diminuire, nonostante siano vicini a 100 i morti causati dalla pesante repressione delle autorità. Nel tentativo di complicare le capacità organizzative dei protestanti e di impedire al mondo di conoscere la verità, il Governo ha bloccato l’accesso alle principali piattaforme social e, in molte zone, ha addirittura “spento” l’internet.

Mahsa era una ragazza di 22 anni, originaria del Kurdistan, dove il suo nome significa “come la luna”. Mentre si trovava a Teheran, è stata arrestata dalla “polizia per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”, apparentemente perché troppe ciocche di capelli sfuggivano dal suo hijab obbligatorio, e portata in un centro di detenzione per essere educata al corretto abbigliamento.

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Una follia pensarlo, per noi occidentali. Eppure in Iran è normale: si può essere arrestati per un sorriso o una risata, per un tono di voce non appropriato o per contatti inopportuni, tipo salutare un amico con un una stretta di mano. Ci sono milioni di regole per il comportamento, valide in teoria per entrambi i generi ma applicate davvero solo nei confronti delle donne.

A partire dalla rivoluzione islamista del 1979, le donne sono state brutalizzate, spersonalizzate e trattate come cittadini di categoria inferiore. Dopo la guerra contro l’Iraq, la propaganda statale è riuscita a collegare l’hijab al culto del martirio dei caduti, così che esporre i propri capelli viene considerata una forma di profanazione della loro memoria.

Hijab: orgoglio o imposizione

L’hijab è una semplice sciarpa che viene indossata sulla testa a incorniciare il volto e poi girata intorno al collo. È frequente, specie nei quartieri universitari di Teheran, vedere giovani donne che portano il loro hijab aperto, con molta disinvoltura, specie nelle relazioni tra pari, così come vederne altre attentissime che nemmeno una ciocca sfugga dal velo, altre che indossano una sorta di cuffietta e sopra vi appoggiano la sciarpa.

Questi sono tutti comportamenti accettabili tra giovani, che quasi non vengono notati nella comunità dei pari, come se si trattasse di un vezzo personale scegliere come portare il velo. Meno accettabili risultano tali “licenze morali” alle guardie, che usano maniere coercitive e forme di tortura sulle ragazze sorprese in abbigliamento non consono. Sono numerose le denunce alle organizzazioni per i diritti umani per violenze psicologiche e fisiche, per detenzione immotivata e perfino per la morte di una donna in carcere.

Molte proteste, ma questa è diversa

Non è la prima volta che il popolo iraniano insorge contro il proprio Governo, succede da sempre e col tempo le proteste hanno assunto maggior frequenza e vigore. In Iran, si svolge da decenni uno scontro generazionale tra la popolazione giovane, istruita e cosmopolita contro un Governo geriatrico, non solo nel senso anagrafico, che fonda il suo potere nell’isolamento e la repressione.

Ma non è solo una questione generazionale, lo si vede bene in quest’ultimo episodio. Zhina, come viene soprannominata Mahsa (che significa “colei che dà la vita”), è una figura a cui praticamente ogni famiglia iraniana si può sentire legata: è donna, è giovane e appartiene a una minoranza etnica. In queste proteste, per la prima volta sono riunite diverse classi sociali, universitari e operai, ma anche tutte le minoranze, in beffa alle manovre delle autorità per metterle una contro l’altra e poterle così controllare.

Eco nazionale e internazionale

È una sollevazione nazionale, non circoscritta, che coinvolge anche le celebrità del mondo dello spettacolo o dello sport. Alcuni si sono rasati i capelli in segno di vicinanza, altri si sono schierati con appelli, altri ancora hanno diffuso video mentre bruciano l’hijab. Sono donne arrabbiate e disperate. Ma ci sono anche tanti, tantissimi uomini al loro fianco e anche questa è una grossa novità rispetto al passato. Il movimento White Wednesdays è diventato grande, enorme, si potrebbe dire.

MY STEALTHY FREEDOM/ FACEBOOK

Emblematico è il caso della nazionale di calcio iraniana che si è presentata all’inno nazionale indossando un giubbotto nero sopra la divisa, come un hijab in versione maschile, un modo per disconoscere il proprio Paese se non ha rispetto delle sue cittadine. Un altro calciatore si è rasato i capelli e ora rischia di essere escluso ma difende la sua decisione arrivando a dire che è un prezzo equo contro l’iniquità di un sistema religioso oppressivo.

Scioperi, embargo e accordo sul nucleare

Le proteste non si fermano alle semplici dimostrazioni di strada. Negozi e imprese hanno chiuso in una forma di lutto non autorizzato, è partito un forte richiamo allo sciopero del sistema educativo, con gruppi di insegnanti a tutti i livelli che si fermano e restano in silenzio. Forse più drammatico per il vecchio Khamenei è lo sciopero minacciato dai lavoratori del settore petrolifero.

Il presidente Raisi, a cui viene concesso un palco oratorio all’ONU, sembra lontano anni luce dalla realtà, non accenna alle proteste che stanno mettendo a fuoco il suo Paese, finge benissimo che siano solo due scalmanati che verranno presto riportati alla quiete.

E intanto gli USA dichiarano illegale la polizia morale, altro nome nella lista delle sanzioni, oltre a eliminare l’embargo sui beni per il rispristino delle comunicazioni. Quel folle genio di Elon Musk chiede una licenza per portare il suo sistema Starlink sulla Persia, regalando agli iraniani internet nonostante i blocchi. In Iran spuntano app di messaggistica con sistemi crittografati che sfuggono alla censura e le piattaforme per il delivery diventano luoghi dove organizzare la prossima manifestazione.

Futuro incerto

Ma c’è anche qualcun altro che guarda con occhi nuovi ai tentativi ridicoli del Governo di porsi come interlocutore ragionevole, con programmi in TV dove si finge di dibattere la questione del velo. Il problema va molto oltre una sciarpa, è radicato in un sistema politico corrotto e clientelare, improntato alla divisione e sempre pronto a reprimere nella violenza ogni forma di dissenso.

Alcuni sprazzi di speranza vengono dal forte interesse dichiarato dalla cosiddetta Mezzaluna Sciita, un influente gruppo di movimenti islamici che si discosta dal modello di Islam iraniano (e non solo) e spinge verso una moderazione dei divieti, un’apertura delle norme più divisive. Ci sarebbero documenti trapelati da cui si evince un crescente malcontento anche tra la magistratura e le forze di sicurezza. E qualche membro dell’élite politica ha addirittura espresso solidarietà alla famiglia Amini in un gesto pubblico senza precedenti.

Non è possibile sapere se le proteste attuali potranno davvero portare un cambiamento politico duraturo o se la repressione avrà anche questa volta la meglio sulla volontà della gente. Forse la domanda vera non è se il cambiamento arriverà, bensì quando. E quante vite dovranno essere perdute per la caparbietà cieca di un Governo che non accetta di essere già morto.

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