Ci sono uomini di cui andare orgogliosi. Sono quelli che si battono per il rispetto della dignità delle donne. Uno di questi è André Bamberski, classe 1938, protagonista del film true crime L’assassino di mia figlia, sulla piattaforma streaming Netflix. Nel 1982, in Germania, la figlia Kalinka, 14 anni, che vive con la madre Danièle Gonnin e il nuovo compagno di quest’ultima, muore all’improvviso. La causa? Un’insolazione.

Nonostante i tentativi del patrigno, il medico cardiologo Dieter Krombach, di animare Kalinka, la ragazzina perde la vita nel letto di casa. La coppia e la giovane vivono in una villetta a Lindau, splendida località sul lago di Costanza, dove il dottor Krombach è stimato e benvoluto.

Il padre di Kalinka, André Bamberski, famiglia di origine polacca emigrata in Francia, pur vivendo in Francia, a Tolosa, intuisce che qualcosa non va nella morte di Kalinka: la giovane era in salute e faceva molto sport. Le cause della morte, secondo la perizia medico-legale, non sono chiare. Si è solo arrivati a stabilire che la 14enne è morta di asfissia, soffocata dal rigurgito del cibo che aveva nello stomaco, mentre di trovava di notte a letto.

Ha inizio così, per André Bamberski una battaglia lunga 39 anni per ottenere la verità. Il suo obiettivo è quello che egli ritiene essere l’assassino della figlia, il nuovo compagno della moglie: lo stimato dottor Krombach. Il film true crime, L’assassino di mia figlia, in 84 minuti di racconto, fra testimonianze, ricostruzioni, documenti del tempo e il racconto di questo padre coraggio, ripercorre il lungo e faticoso cammino di Bamberski per la verità. E per far condannare quello che egli ritiene essere l’assassino della figlia.

“L’assassino di mia figlia”, il film e la violenza sulle donne

Il film documentario sulla vicenda di Kalinka – diretto dal registra francese Antoine Tassin, si snoda con un racconto coinvolgente, mai gridato, sobrio nella sua pur cruda verità. Il ritmo quasi lento – rispetto ad altri film d’inchiesta – consente a L’assassino di mia figlia di acquisire autorevolezza. E a noi spettatori di entrare nei meccanismi di una storia sconcertante.

Tutta la partita si gioca sul fatto che da un lato abbiamo un padre, André Bamberski, convinto dell’omicidio della figlia, ma costretto a misurarsi con il fatto che il suo assassino designato è un cittadino tedesco e vive in Germania. Quindi in un altro Stato, con tutti i problemi di estradizione e di inchiesta che questo comporta.

Nonostante gli ostacoli giganteschi, e ricorrendo anche a mezzi non convenzionali e vietati dalla legge, il padre di Kalinka riesce a condurre la sua battaglia. L’eroe, però, alla fine ci dice che è stata una battaglia titanica; e che non se la sentirebbe di consigliarla. Una battaglia resa ancor più difficile e dolorosa a causa dell’appoggio incondizionato che l’ex moglie, e madre di Kalinka, Danièle Gonnin, ha dato per decenni all’assassino della ragazzina.

Il grande merito di André Bamberski – e del regista del film true crime – è di aprire uno squarcio sulla violenza sulle donne. Siamo riportati a un tempo, i primi Anni Ottanta, quando – dice una giornalista tedesca – se una donna andava alla polizia a denunciare una molestia o uno stupro, veniva derisa.

Dall’iniziativa e dalla lunga indagine del padre di Kalinka emergono tutta una serie di altri casi, poi attribuiti al dottor Dieter Krombach, che emerge come un violentatore seriale. Alla fine sono 16 le donne che, negli anni, hanno subito le molestie e gli stupri del cardiologo tedesco.

Come tutte le battaglie, anche quella di André Bamberski deve scontrarsi con le inerzie della burocrazia giudiziaria. E contro gli innegabili diritti di un sospettato di non essere processato in modo sommario. A questo proposito, il film documentario d’inchiesta L’assassino di mia figlia ha il pregio di non criminalizzare il dottor Krombach. Non vi è una presa di posizione colpevolista; tant’è che vengono riportare le argomentazioni degli avvocati del cardiologo, che lo difendono in Francia e in Germania.

Nel film true crime non vi è un processo mediatico al presunto violentatore, e questo è un pregio. In compenso, e questo è un limite, non viene tematizzato – se non con qualche accenno – il ruolo dei media nel presentare il caso di Kalinka alla pubblica opinione. L’attività senza sosta, e senza mai mollare, del padre André ha infatti subito il pregio di accendere i riflettori sul versante tedesco e sulla figura opaca del medico.

Il pregio dei media tedeschi – in assenza di una seria iniziativa giudiziaria che esaminasse le argomentazioni di André Bamberski – è stato di accendere i fari, negli Anni Novanta, sul personaggio del dottor Krombach. Un personaggio nel vero senso della parola, dato che ha dimostrato nel tempo di saper recitare più ruoli, a cominciare da quello del cardiologo stimato e di sicura affidabilità.

Possiamo, così, dire che L’assassino di mia figlia da un lato racconta la battaglia quarantennale di un padre per la verità sulla morte della quattordicenne Kalinka. Dall’altro la lunga trafila giudiziaria e d’inchiesta porta alla luce il tema della violenza sulle donne. Infine, cogliamo – seppur senza enfatizzarlo – il ruolo dei media tedeschi nell’aver aiutato André Bamberski a smascherare un violentatore seriale. Proprio sul ruolo dei media in tema di crimine e giustizia è importante riflettere, sia quando esercitano un ruolo negativo; sia quando sono strumenti utili per accertare la verità dei fatti.

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