Ouverture

La preghiera di San Bernardo alla Vergine, all’inizio del XXXIII canto del Paradiso, non è mai stata oggetto di particolare attenzione scolastica, almeno a mia memoria (posso darne testimonianza diretta almeno dalla metà degli anni Settanta e indiretta dal secondo dopoguerra).

Forse perché l’alone critico della visione crociana ne aveva in certa misura attenuato l’impatto sulla sensibilità poetica comune. Forse anche perché la, mai espressa formalmente, ma profondamente salda, alleanza ideologica a sfondo materialistico e agnostico (se non persino anticlericale) degli anni Settanta del Novecento fra la critica marxista, dominata dal formalismo russo e da certe correnti della semiotica linguistica, e lo storicismo di marca liberale-idealista, aveva dato vasto e persistente seguito a quella disattenzione, congelando la preghiera dantesca a Maria fra le espressioni meno poetiche (di “struttura” quindi) e perciò meno degne di lettura scolastica.

Fatto sta che fino alla fine del XX secolo la cultura dominante vedeva Dante (e Manzoni) in linea con un cattolicesimo ritenuto troppo propenso a evangelizzare mediante la cultura e comunque tanto poco attento a difendere la laicità dell’arte quanto pericolosamente impegnato, per converso, a denunciarne un eccessivo asservimento alla politica, secondo le tendenze culturali di ispirazione gramsciana.

Dobbiamo poi ricordare che Dante era stato per lungo tempo arruolato dalla politica risorgimentale tra i Padri della Patria e quel circuito politico ideologico, di marcata coloritura massonico-liberale, con l’ambiente cattolico non aveva certo avuto un buon rapporto, almeno fino ai Patti Lateranensi. Si aggiunga infine il sempre molto difficile approccio alla lingua della Divina Commedia e il fissarsi di una koinè scolastica su una selezione di canti standardizzata e condivisa che in certa misura rassicurava, di generazione in generazione, l’accosta­mento al grande poema.

Bisognava arrivare a Sermonti e a Benigni, per assistere a una nuova stagione di rinascita dantesca. Le celebrazioni per i settecento anni dalla morte del Poeta hanno poi rotto tutti gli argini e oggi sembra che il mondo intero abbia riscoperto la Divina Commedia.

Soprattutto il Paradiso ha riguadagnato terreno, fermo restando che il Purgatorio rimane sempre sullo sfondo, come terra desolata frequentata da spericolati specialisti, mentre l’Inferno rimane nel gusto dei più l’indiscuti­bile punto di riferimento.

Noi qui vogliamo invece ritornare al Paradiso, a quella preghiera alla Vergine che costituisce uno di punti in assoluto più alti della poesia dantesca e si configura come la sintesi suprema di teologia, filosofia, poesia e fede, a conferma di una ardita polisemia strutturale del testo e una scoscesa configurazione del tessuto linguistico come cifre specifiche e intrinseche della complessità organica dell’opera, nella quale il sublime scaturisce da fonti spesso nascoste, o comunque non facilmente attingibili a una lettura frettolosa e superficiale.

Innanzi tutto rileviamo che nemmeno Beatrice assiste Dante sul limitare dell’ulti­mo spettacolare balzo verso l’Assoluto. è necessaria una guida particolare, quella di un grande santo mistico, Bernardo di Chiaravalle, noto per le sue visioni, le sue esperienze mistiche e le sue incursioni anche polemiche nei dibattiti filosofici e teologici del XII secolo. Bernardo è definito Doctor Mellifluus per la “dolcezza” e la fluidità del suo eloquio. è lui che porterà Dante al sommo passo verso l’immersione nel cuore della Trinità e che per questo invocherà la Vergine Maria con una straordinaria orazione, che qui riportiamo, suddivisa nelle sue tre (implicite) sezioni:

Laudatio

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio, 
umile e alta più che creatura, 
termine fisso d’etterno consiglio,                                    3

tu se’ colei che l’umana natura 
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore 
non disdegnò di farsi sua fattura.                                    6

Nel ventre tuo si raccese l’amore, 
per lo cui caldo ne l’etterna pace 
così è germinato questo fiore.                                         9

Qui se’ a noi meridiana face 
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, 
se’ di speranza fontana vivace.                                       12

Donna, se’ tanto grande e tanto vali, 
che qual vuol grazia e a te non ricorre 
sua disianza vuol volar sanz’ali.                                     15

La tua benignità non pur soccorre 
a chi domanda, ma molte fiate 
liberamente al dimandar precorre.                                18

In te misericordia, in te pietate, 
in te magnificenza, in te s’aduna 
quantunque in creatura è di bontate.                             21

Deprecatio

Or questi, che da l’infima lacuna 
de l’universo infin qui ha vedute 
le vite spiritali ad una ad una,                                         24

supplica a te, per grazia, di virtute 
tanto, che possa con li occhi levarsi 
più alto verso l’ultima salute.                                          27

E io, che mai per mio veder non arsi 
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi 
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,                        30

perché tu ogne nube li disleghi 
di sua mortalità co’ prieghi tuoi, 
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.                           33

Ancor ti priego, regina, che puoi 
ciò che tu vuoli, che conservi sani, 
dopo tanto veder, li affetti suoi.                                        36

Vinca tua guardia i movimenti umani: 
vedi Beatrice con quanti beati 
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».                         39

Adsensus

Li occhi da Dio diletti e venerati, 
fissi ne l’orator, ne dimostraro 
quanto i devoti prieghi le son grati;                                42

indi a l’etterno lume s’addrizzaro, 
nel qual non si dee creder che s’invii 
per creatura l’occhio tanto chiaro.                                  45

E io ch’al fine di tutt’i disii 
appropinquava, sì com’io dovea, 
l’ardor del desiderio in me finii.                                      48

Bernardo m’accennava, e sorridea, 
perch’io guardassi suso; ma io era 
già per me stesso tal qual ei volea:                               51

ché la mia vista, venendo sincera, 
e più e più intrava per lo raggio 
de l’alta luce che da sé è vera.                                       54

Largo

Orazione è parola ambivalente. Quella di Bernardo è a tutti gli effetti una difesa, una vera e propria Oratio pro Dante. Ma il termine orazione, proprio in questo passo, assume in forma pregnante il valore originario di “preghiera” e il testo poetico diventa documento dello slittamento semantico verso le origini del termine, che in fase classica, tardo-antica e nel primo Medio Evo era invece passato, anche sulla base dei testi ciceroniani, da quello arcaico e originario di “preghiera” a quello più consueto di “discorso”, sia nel senso di formulazione di un pensiero sia in quello tecnico di intervento in tribunale o assemblea. Ma, come sappiamo bene, nell’uso comune della pietà popolare (veneta in particolare) il termine orazione, spesso usato al plurale, ha mantenuto sempre il valore originario di preghiera (con quale devozione le nostre nonne recitavano le “orazioni del mattino e della sera”!), basti pensare anche all’invito che ricorre nella messa da parte del celebrante ai fedeli: oremus: “preghiamo”. E vera e propria preghiera è quella che il divino dottore Bernardo rivolge a Maria, scandendola in tre momenti di 7, 6, 5 strofe, per complessivi 54 versi. Sette strofe (vv 1-21) costituiscono l’invocazione composta di lodi; sei strofe (vv 22-39) costituiscono la richiesta di grazia; cinque strofe (vv 40-54) descrivono l’effetto della preghiera e la concessione.

Un momento particolare è rappresentato poi dalla prime due strofe, che costituiscono una specie di ouverture, un “fortissimo” iniziale che sconvolge il cuore e la mente. Di queste due terzine particolarmente complessa è la struttura. Se la prima è di tipo paratattico asindetico, in quanto composta di attributi accostati in sequenza, senza nessuna congiunzione – macchie di luce gettate su una tela come sprazzi di colore abbagliante – la seconda costituisce integralmente un periodo complesso (principale + consecutiva) che esprime un concetto unitario.

Dal punto di vista stilistico la prima strofa è un concentrato impressionante di figure retoriche: tre antitesi, (due ossimori: ovvero accostamenti di termini contrapposti, che per definizione non potrebbero nemmeno essere confrontati in un’antitesi, in quanto naturalmente escludentisi fra loro, per cui è assolutamente impossibile la loro compresenza, nemmeno da due punti di vista diversi), una terza antitesi semantica pura in coordinazione, e infine un’iperbole, ovvero una affermazione che esalta Maria oltre il pensabile.

Nella seconda abbiamo invece la descrizione di una situazione o di un fatto che sono irreali: abbiamo quindi un adynaton, ovvero un evento impossibile secondo la logica umana, che però in questo caso costituisce il cuore della fede, Mysterium Fidei, ovvero l’Incarnazione: Maria è infatti la dimostrazione che “nulla è impossibile a Dio”, come afferma Gabriele all’atto dell’Annunciazione. Questa la struttura retorica:

Si noti come fattura dell’ultimo verso corrisponda in rima a natura, ma configuri una consonanza par onomastica (identità di consonanti e variazione vocalica) con il precedente fattore, in un gioco raffinatissimo di corrispondenza etimologica: factor (nomen agentis) diventa factura (nomen rei actae), così che nella struttura del lessico si attua il valore teologico dell’affermazione espressa.

Infine tutta l’orazione è da un lato la dimostrazione del principio cardine della devozione mariana: “ad Jesum per Mariam”, teologicamente fondato sulla certezza che solo Maria può sostenere lo sguardo di Dio e dirigere sempre, a suo piacimento e senza esitazioni né timori reverenziali, i suoi occhi là dove anche Dante avrà il privilegio di guardare per un infinitesimo istante. Dall’altro la preghiera chiude “a ring” la vicenda dantesca, ricollegandosi alle prime fasi della Commedia, là dove, nel secondo canto dell’Inferno, Virgilio spiega, a un Dante perplesso e inquieto di fronte al percorso che dovrà compiere, come la Madre stessa di Dio avesse avuto per lui lo sguardo di misericordia e affetto (ed ecco l’esempio concreto di come Maria “liberamente al dimandar precorre”!) per cui chiamò Lucia affinché inviasse Beatrice a chiedere aiuto a Virgilio, in una catena di comando di successione gerarchica di strepitosa e suggestiva efficacia scenografica, esposta a mo’ di scatole cinesi (Inf. II, 94 sgg.). Virgilio cita in forma diretta la preghiera che Beatrice, scesa dal cielo, rivolge a lui, condannato a vivere nel limbo, ma dotato di indiscussa autorità sul Poeta smarrito. Il soggetto esterno della narrazione, quindi, è Virgilio, che si rivolge a Dante, ma il soggetto interno è Beatrice, che rivolgendosi a Virgilio a sua volta riporta le parole di Maria:

Donna è gentil nel ciel che si compiange 
di questo ’mpedimento ov’io ti mando, 
sì che duro giudicio là sù frange.                                  

Questa chiese Lucia in suo dimando 
e disse: «Or ha bisogno il tuo fedele 
di te, e io a te lo raccomando».

Lucia, nimica di ciascun crudele, 
si mosse, e venne al loco dov’i’ era, 
che mi sedea con l’antica Rachele.                  

La vicenda si chiude, dunque, con lo sviluppo logico e dialetticamente simmetrico della situazione iniziale di Dante. Virgilio ha consegnato Dante a Beatrice sulla soglia del Paradiso Terrestre, ora Beatrice lascia a Bernardo il pellegrino che, di Fronte a Maria per bocca del mistico dottore, invoca la grazia di avere la forza di conoscere direttamente la Trinità Divina. Questo aspetto è molto importante per comprendere gli sviluppi della fase finale di questa esperienza ultraterrena.

Andante

Il tessuto linguistico delle due strofe iniziali è poi sostenuto da un ritmo di particolare intensità. I sei versi, sono identici ritmicamente due a due, così che, se sul piano metrico la struttura, governata dalla rima incatenata, è configurata nella sequenza strofica di 3 versi+3 versi, in realtà la struttura prosodica (la simmetria cioè dello schema degli accenti) è impostata secondo la successione 2+2+2:

Questo “ornato” retorico, costituisce un’autentica corona di preziosa raffinatezza linguistica, nella quale lessico e prosodia, grammatica e retorica, filosofia e teologia si integrano in una incredibile unità espressiva, configurando concetti di rarefatta e altissima complessità. Ebbene questo incipit è anche la sintesi suprema della Com­media; in essa si riflettono debolezza dell’uomo Dante, pietà di Maria e di Lucia, ammonimenti di Beatrice e insegnamenti di Virgilio.

Lo sviluppo dell’orazione riprende poi i concetti fondamentali della teologia mariana, proiettando sull’ordine del Paradiso appena percorso, la insondabile e profonda specificità creaturale di Maria che, Regina del cielo, è anche Madre sulla terra e ponte fra la natura umana e la dimensione divina, perché proprio nel suo seno ha preso vita una Nuova Forma dell’Universo generata dal calore di quell’Amore dal quale è germogliato il fiore che costituisce la gloria dei Santi e il premio della gioia eterna. La fede di Dante, innervata da secoli di patristica e di pensiero teologico, zampilla in uno slancio di poesia purissima e di vertiginosa finezza, incomprensibile a quanti non hanno mai sperimentato nel cuore quella dolcezza generosa che “molte fiate/libe­ramente al dimandar precorre”.

Qui di seguito riportiamo anche lo schema metrico secondo le leggi della poesia latina (e greca) individuando come lunghe le sillabe accentate e come brevi quelle atone. Si noterà come la struttura di tipo “quantitativo” secondo la prosodia latina giochi a “nascondino” con la prosodia del volgare di tipo “accentuativo”, in un inaspettato sovrapporsi e intrecciarsi di ritmi, che conferisce alla cadenza del volgare armonica e potente dignità di lingua poetica classica.

In queste due terzine la nobiltà del volgare viene affermata con un prodigioso gioco espressivo che in modo inarrivabile rispetta il precetto sallustiano exaequanda facta dictis: da non interpretarsi banalmente con “adeguare il linguaggio ai fatti”, ma “rivestire i fatti di un linguaggio adeguato alla loro altezza”. E qui siamo alla vertigine di inarrivabili vette:

Presto

Veniamo ora ad alcuni aspetti più sostanziali dei questa straordinaria preghiera.

  • Innanzi tutto esaminiamo la quinta strofa, che spesso non viene interpretata in maniera sintatticamente corretta. Non siamo di fronte a un anacoluto e l’espressione “qual vuol grazia e a te non ricorre/sua disianza vuol volar sanz’ali” non va interpretata, come spesso si legge nei commenti, “chi desidera una grazia e non ricorre alla tua intercessione è come se il suo desiderio volesse volare senza ali”. Siamo infatti di fronte al costrutto tipicamente latino della frase infinitiva oggettiva: quicumque vult gratiam neque a te eam petit, vult desiderium suum sine alis volare” ovvero “chiunque desidera una grazia e non ricorre a te, pretende che il suo desiderio voli senza ali”. Quindi il vuol che precede volar non va riferito al desiderio come soggetto, ma al chi, soggetto che rivolge la preghiera, a conferma della insipienza di chi non ricorre a Maria per giungere a Gesù.   
  • Analizziamo poi la settima strofa, caratterizzata da una insistente anafora: “in te, … in te, … in te, … in te …” che spezza in due emistichi i primi due versi. Ebbene: non è possibile non cogliere il puntuale rinvio ritmico, retorico e testuale all’inno del IV secolo Tota Pulchra, in particolare al passaggio in cui Maria viene lodata per la sua perfezione e la sua funzione ineludibile di potente mediatrice nella intercessione presso il Figlio:

Tu gloria Ierusalem.

Tu laetitia Israel.

Tu honorificentia populi nostri.

Tu advocata peccatorum.

  • Veniamo ora alla seconda sezione, la Deprecatio (vv. 22-39). Bernardo chiede due cose:
    • che Dante sia esaudito nel suo desiderio di acquisire “di virtute/ tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute.”
    • che Maria “conservi sani,/dopo tanto veder, li affetti suoi.”

Se la prima richiesta è chiara, anche perché caldeggiata da Bernardo come e più che se fosse avanzata per lui stesso, la seconda, posta a questo punto, lascia un po’ perplessi ed è un po’ più criptica. Fino a questo punto il clima generale dell’invocazione e il successivo tono della narrazione dantesca rinviano all’insufficienza delle parole, all’inadeguatezza dell’intelletto, alla insufficienza della memoria. Ma qui la richiesta non è relativa alle capacità intellettuali e cognitive di Dante, che dopo l’esperienza suprema e sconvolgente dell’immersione nell’ “Infinito”, potrebbero restare ferite e inadeguate alla vita ordinaria che lo attende al ritorno del suo viaggio.

La chiave ermeneutica di questo punto è piuttosto nel successivo verso, il primo dell’ultima strofa di questa sezione: “Vinca tua guardia i movimenti umani”. Siamo di fronte alla esplicita richiesta di una continua e incessante forma di protezione di Maria: come a dire, “Fai in  modo che questa esperienza non gli sia motivo di orgoglio e di vanto, e la tua guardia sia vigile e attenta nel controllare i sentimenti dell’uomo” (questo è appunto il senso della parola “movimenti”) che sono comunque sempre soggetti alla tentazione. Passaggio, questo, di una finezza strabiliante: se infatti Maria è la creatura perfetta che guida Dante “verso l’ultima salute”, là dove il tempo è terminato e lo spazio “solo amore e luce ha per confine”, la vera e perfetta conquista della purificazione necessaria all’ultimo e supremo balzo verso la piena conoscenza sta nella consapevolezza della fragilità della condizione umana, per cui anche la più alta forma di esperienza pensabile e possibile per una creatura può essere occasione di peccato.

Filippo Lippi, Madonna di Palazzo Medici (particolare; 1466)

Quel peccato di superbia e di orgoglio, che, sempre in agguato come famelico Leone, può essere vinto solo con l’assistenza del­l’Advo­cata peccatorum (genitivo plurale, quest’ultimo, di peccator, peccatoris,) invocata nell’ora­zio­ne/preghie­ra/arringa da colui che, signore indiscusso della lingua umana, può farsi comprendere, per le sue esperienze e per la sua naturale disposizione di mistico, anche dalle creature celesti, che tutte, insieme a Beatrice, a mani giunte, si fanno compartecipi e garanti della preghiera di Bernardo.

  • E giungiamo infine all’ottenimento della grazia, all’adsensus (vv. 40-54). Gli occhi di Maria si spostano dall’oratore, sul quale erano fissi, a conferma di una autentica adesione alle sue parole, “a l’etterno lume”, e questo è il segnale: Dante lo coglie prima ancora che lo stesso Bernardo lo inviti a guardare “suso”,  e afferma con sincerità: “io era /già per me stesso tal qual ei volea”, perché si era iniziato già quel processo di attrazione che “l’alta luce” esercita su chi riesce a fissare in essa lo sguardo, impedendo a chi vi si inoltra di guardare oltre. Infatti:

A quella luce cotal si diventa, 
che volgersi da lei per altro aspetto 
è impossibil che mai si consenta;                               

però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, 
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella 
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.                                         

Exitus

La creatura imperfetta è stata alfine attratta nel vortice del Bene, dell’Amore, della Conoscenza e a poco a poco entrerà in piena sintonia con il movimento dell’Uni­verso, che, squadernato nelle diverse forme e nelle infinite sostanze agli occhi di coloro che vivono nel tempo, ora si appresta a mostrarsi all’ultramondano pellegrino, riunito nella primordiale, perfetta, originaria Unità dell’Essere in un volume compatto e organico.

Incredibile metafora, questa, del libro che a questo punto assume un valore di straordinaria efficacia. Anche l’emblema materiale del sapere entra a far parte di questo fantasmagorico gioco linguistico: il sacro libro dell’uni­verso, nel quale è scritta la sapienza di Dio creatore, si manifesta come simbolo dell’unità perfetta e suprema dell’Essere. In Dante stesso, da questo momento in poi, istinto e volontà (il disio e il velle) non solo non sono più separati, ma nemmeno distinti e vengono a coincidere con l’im­pulso vitale, con l’energia prima di quel Motore Immobile che è la suprema sintesi di Amore, Bene e Conoscenza.  

Infine la Trinità, il mistero dei misteri, che al centro della sua iridescente luminosità rivela il suo volto autentico, quello della natura umana perfetta e redenta, fatta Figlio dall’amore del Padre e amata oltre ogni limite con la potenza dell’ Ἄγιον Πνεῦμα, Aghion Pneuma, lo Spirito Santo:

O luce etterna che sola in te sidi, 
sola t’intendi, e da te intelletta 
e intendente te ami e arridi!                

Anche l’imperfetta creatura Dante ora si muove all’unisono e in piena coerenza con il battito dell’Universo perché, grazie all’intercessione di Maria, che dal principio lo ha soccorso nella selva oscura, egli è entrato nel profondo del mistero divino e ora, come “docile fibra” si muove senza più debolezze e fragilità, insieme con tutte le creature che obbediscono alla infinita potenza che promana dal punto più alto dei cieli.

Alla fine cede la stessa capacità di sentirsi individuo e Dante è come si dissolvesse nell’Infinito, perché lo travolge con la sua energia rigeneratrice e lo immette nel vasto e infinito movimento dei cieli, delle forme e della materia, “sì come rota ch’igualmente è mossa”, 

l’Amor che move il sole e l’altre stelle.

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