Per un pugile di buon livello, quanti possono essere i match dove tra le mani ti passa non solo la carriera, ma proprio la vita? C’è chi a giocarsi tutto all’ultima ripresa non ci arriva mai. Altri, per fortuna o talento, hanno più occasioni. Anche per i campioni veri, però, le puoi contare sulle dita di una mano.

Johann Wilhelm Trollmann di match così ne combatte due. Il primo è il 9 giugno del 1933, in una storica birreria di Berlino, la Bock Brewery. Il secondo lo sorprende più di dieci anni dopo, in un imprecisato pomeriggio di marzo a Wittenberge, piccolo centro del Brandeburgo bagnato dall’Elba. Siamo nel 1944 e, in questo capitolo della sua storia, la cittadina incastrata tra le anse del fiume ospita un campo di concentramento.

Trollmann ha due nomi, uno più tedesco dell’altro. Eco di musiche immortali e fasti imperiali. Pure il cognome sembra voler evocare qualche fiaba nordica. I riccioli scuri e la carnagione olivastra, invece, raccontano altro. Di un viaggio secolare iniziato ai piedi dell’Hindu Kush. Quello che gli scorre nelle vene è sangue Sinti.

Provate a immaginarlo. Un pugile tedesco che sul ring, invece di esporre muscoli e tracotanza, sembra muoversi sulle note di un violino. In una di quelle danze che possono nascere solo sotto un soffitto di stelle. Perché soffrire quando posso schivare? Non proprio il mantra della sua generazione, che di lì a poco si ritroverà pigiata in adunate oceaniche a braccia tese.

Johann Wilhelm Trollmann

Siccome sono le comunità a creare i propri leader e non il contrario, anche prima dell’avvento del nazismo e della salita al potere di Hitler, non è che i tedeschi sprizzino simpatia per Trollmann. Zingaro, Gipsy – che lui poi ostenterà, modificato in Gibsy, sui pantaloncini indossati durante gli incontri – anche troppo facile chiamarlo così. Per la sua gente però lui è Rukelie, “albero” in lingua sinti.

Ma torniamo ai match. Nel giugno del ‘33, in mezzo al fumo e alle urla della birreria berlinese c’è in palio il titolo tedesco dei mediomassimi. Sul ring, di fronte a lui, la mascella squadrata dell’arianissimo Adolf Witt. Nel pubblico vari gerarchi nazisti, tra i quali Georg Radamm, presidente della federazione pugilistica.

La boxe pare sia anche lo sport preferito del Führer. L’equazione, perciò, è elementare: un subumano non può trionfare. Così, quando le sorti di un match realmente combattuto sembrano volgere verso Trollmann, Radamm induce i giudici ad emettere un verdetto di “nessuna decisione”. A quel punto, vuoi per la birra circolata a fiumi, vuoi per l’eccitazione che impregna l’aria, sono gli spettatori stessi a ribellarsi e a pretendere un verdetto a favore dello zingaro.

Rukelie indossa la cintura e scoppia in lacrime davanti a tutti. Già sapeva, probabilmente. Una settimana più tardi la Federazione pugilistica invalida il verdetto. Ufficialmente “per aver messo in imbarazzo il pugilato professionistico tedesco” con un “comportamento inadeguato e antisportivo”. Le sue lacrime, per l’appunto. Trollmann all’epoca ha solo 26 anni, ma la sua carriera è già finita.

Monumento dedicato a Johann Trollmann, Viktoriapark, Berlin-Kreuzberg

Di lì a un mese perderà contro Gustav Eder in un incontro-farsa organizzato solo per vederlo al tappeto. Con nuove regole create per l’occasione, come il divieto di danzare sul ring e l’obbligo di restare immobile a guardia abbassata, pena la revoca della licenza. Trollmann si presenta cosparso di polvere bianca e coi capelli tinti di biondo. Un finto ariano che però, alla fine, fa ciò che tutti si aspettano. Perde.

Avrebbe potuto riparare all’estero già da un paio di anni. Come avevano fatto molti sportivi tedeschi di origine ebrea. Come Erich Seelig, il campione della classe di peso di Trollmann emigrato oltreconfine lasciando in palio proprio la cintura conquistata da Rukelie. Nonostante la malparata e il cappio che si stringe, Trollmann non fugge. Il suo sarà uno dei corpi divorati dal Porrajmos, o dal Samudaripen, due termini con i quali viene indicato lo sterminio delle popolazioni romanì (Rom, Sinti, Manush, Kalé e altre con diverse autodenominazioni) perpetrato da parte della Germania nazista.

Combatte clandestinamente nei luna park, viene messo ai lavori forzati per produrre mattoni e la sera, cercando di sbarcare il lunario, fa il cameriere. Per evitare la sterilizzazione imposta dal regime fugge nei boschi. Ci resta per qualche mese poi, per salvare la famiglia, accetta l’orrore della vasectomia. Certe razze non devono proliferare.

Diventa carne da cannone, letteralmente, perché nel frattempo la guerra divampa e lo mandano a combattere prima in Francia e poi sul fronte orientale. Ferito, torna a casa, ma solo per essere arrestato e deportato al campo di concentramento di Neuengamme e, successivamente, in quello satellite di Wittenberge.

La pietra d’inciampo dedicata a Rukelie, Hannover

Siamo arrivati al secondo match della vita, l’ultimo. Del corpo di Rukelie, flessuoso e adornato di muscoli scattanti, resta solo un mucchio di ossa e carne che arriva forse ai 40 kg. Ma c’è chi ancora si ricorda di lui. Qualcuno come Emil Cornelius, un passato da pugile dilettante e da delinquente, che ora è il Kapò di Wittenberge. Vuole sfidare l’ex campione e batterlo, per il bene della razza probabilmente.

Trollmann ha già ceduto un sacco di volte negli ultimi dieci anni. Quel pomeriggio non lo fa. Il detenuto 9841 manda al tappeto Cornelius alla seconda ripresa. Un sussulto d’orgoglio, oppure l’unica via d’uscita intravista. Il giorno successivo lo stesso Cornelius lo ammazza a colpi di badile. La sua morte non venne dichiarata subito, e nemmeno le sue modalità. Si è dovuto aspettare la fine del conflitto e la testimonianza di un altro prigioniero, che aveva assistito all’omicidio.

Era un marzo più freddo degli altri, dicono. Un albero è stato spezzato, non vedrà la primavera in arrivo.

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