I Paesi dell’Europa occidentale sono i più virtuosi in termini di gender gap, e l’Italia è largamente il fanalino di coda tra essi. Lo certifica il rapporto aggiornato al 2021 pubblicato dal World economic forum. Il divario socioeconomico tra le due metà del cielo trova la sua radice nel contesto culturale del Paese e il primo passo per contrastarlo è il sistema educativo che sfocia, tramite le scelte universitarie, nel mercato del lavoro.

L’istruzione “da maschi” e “da femmine”

I dati ci raccontano infatti che la poca partecipazione delle ragazze prima alle facoltà e poi alle professioni Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) è la conseguenza di un insieme di fattori. La famiglia condiziona anche oggi le ambizioni e le scelte di studio dei ragazzi, i genitori considerano ancora che ci siano materie “da maschi” e altre “da femmina“. Si tratta di stereotipi inconsapevoli, che in totale buona fede i genitori tramandano ai figli e che trovano terreno fertile anche tra gli insegnanti.

Così come la scelta tra prospettive di carriera e cura della famiglia quasi sempre vede pendere l’ago della bilancia a favore della seconda opzione. In termini economici, un deficit dell’otto per cento sul Pil nazionale. E un posticipare permanente del raggiungimento della parità salariale, indispensabile per l’indipendenza economica femminile.

Il peso della pandemia sull’occupazione femminile

L’impatto della pandemia ha influito pesantemente e in modo disomogeneo su varie categorie, aggravando le situazioni di diseguaglianze preesistenti. E le donne sono state le più colpite, almeno per tre ragioni.

Anzitutto le donne sono spesso impiegate in settori colpiti direttamente dal lockdown e dalle misure del distanziamento sociale, per cui hanno subito un più alto tasso di disoccupazione e un rientro sommesso nel mondo del lavoro.

Inoltre, la partecipazione della forza lavoro femminile è calata molto di più rispetto a quella maschile all’inizio della pandemia. Infine, il reimpiego delle donne è stato più lento, con tassi di assunzione inferiori e assunzioni più dilazionate nei ruoli di leadership.

È inoltre dimostrato che le donne che hanno continuato a lavorare nel corso della pandemia hanno visto ridurre le ore di lavoro più degli uomini e alcune si sono ritirate dalle promozioni e dai ruoli di leadership.

Il gap è anche salariale

Nonostante l’esistenza di una serie di caratteristiche individuali e aziendali che possono giustificare il perché di fatto i salari tra uomini e donne, in media, siano divergenti, analisi più approfondite mostrano come esista una discriminazione salariale non riconducibile ad alcuna differenza tra le caratteristiche delle lavoratrici rispetto a quelle dei lavoratori.

Solo il 30% delle donne in Italia ha un impiego, a fronte del 70% dei Paesi del Nord Europa. E solo il 28% delle donne in Italia è presente ai vertici delle imprese (contro il 41,9% registrato in Islanda, il risultato migliore in assoluto).

Se parliamo di retribuzione oraria, in Italia, secondo i dati Istat è pari a 15,2 euro per le donne e a 16,2 euro per gli uomini. Il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). Nel part-time, che interessa soprattutto donne, il divario, rispetto al full-time, sale al 31,1%.

Inoltre, stando ai dati dell’Istituto nazionale di statistica pubblicati lo scorso febbraio, su 101.000 nuovi disoccupati, 99.000 sono donne.

La nuova legge sulla parità salariale, approvata in Commissione Lavoro al Senato lo scorso ottobre 2021, va ad integrare la legge sulle pari opportunità, predisponendo sanzioni nei casi di discriminazioni dirette e indirette. Ovvero, quegli interventi che, modificando l’organizzazione delle condizioni e il tempo del lavoro, mettono la lavoratrice in una posizione di svantaggio.

Stesso discorso per le modifiche che limitano lo sviluppo di carriera per la donna, rispetto alla generalità degli altri lavoratori. La nozione di discriminazione è stata estesa anche agli atti compiuti nei confronti di “candidate e i candidati in fase di selezione del personale” e non più solamente alle lavoratrici e lavoratori.

Interventi normativi sono utili a dirimere un contesto culturale, ma senza una crescita e un’educazione alla cultura della parità di genere non si potrà realizzare uno sviluppo sociale e democratico del Paese.

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