La voce al telefono è cristallina, l’eloquio di Edith Bruck è fluido e gentile. Tra pochi giorni, il 1 febbraio, sarà ospite dell’università di Verona per le serie di incontri legati alla Giornata della Memoria. Deportata ad Auschwitz nel 1944, all’età di tredici anni, passa ad altri campi, tra cui Dachau e Bergen Belsen, e viene liberata con la sorella (perderà madre, padre, un fratello e altri parenti nei campi di sterminio).

Quello di Verona è uno dei suoi innumerevoli appuntamenti, che da più di sessant’anni tiene con gli studenti e con pubblici di diverse età. «In questi due anni in particolare sono sempre invitata tra radio, tv, collegamenti via Zoom. L’allarme del virus ha aumentato una paura generalizzata. Il mio libro (Il pane perduto, edito da La Nave di Teseo, ndr) è uscito il 21 gennaio 2021 e non mi sono fermata un solo giorno».

Molti la cercano come maestra di vita, un punto di riferimento?

«Mi dicono che sono un fenomeno, un monumento, ma non mi piace. Sorveglio il mondo, anch’io ho le mie paure, nel mio profondo sentire vorrei migliorare un poco questo mondo, come mi ha detto papa Francesco quando è venuto a trovarmi. Essere una goccia buona in questo mare. Vorrei vedere un mondo un po’ migliore, se posso fare qualcosa di utile faccio di tutto».

Lei è scrittrice oltre che testimone della Shoah, un binomio inscindibile che la spinge a prendere in mano la penna a pochi anni dalla fine della guerra: Chi ti ama così esce nel 1959. Che bisogno l’ha spinta a raccontare la sua esperienza?

«Dopo la guerra, tornati dai campi nessuno ci ascoltò. Immaginavo che il mondo si sarebbe inginocchiato, invece non ci fu accoglienza, ognuno era alle prese con le proprie sofferenze. Cominciai a scrivere su un quadernino nel ’46, avevo bisogno di buttare fuori il veleno che avevo dentro. Scrivevo in un modo infantile, in seguito ho buttato via queste poche pagine, poco dopo sono uscita clandestinamente dall’Ungheria, quindi sono entrata in Cecoslovacchia e ho fatto un lungo pellegrinaggio, fino ad arrivare in Italia nel 1954».

E prima è stata anche in Israele. Cosa rappresentava per lei quella meta e perché se n’è andata?

«Mia madre mi addormentava la sera, senza cena, con le sue storie su quando saremmo andati nella Terra promessa, dove saremmo stati tutti uguali, saremo stati bene, e io le credevo. Ma arrivammo che lo Stato di Israele era appena nato. Mi aspettavo tutto quello che aveva promesso mia madre e invece trovai l’opposto. Volavano nell’aria le pallottole, tutti entravano nell’esercito, noi ex deportati venimmo trasportati in un campo di transito e rimanemmo lì per mesi. Israele in quel tempo non poteva darci che il minimo, se non un letto e un po’ di cibo. Arrivavano continuamente migranti con le navi, a quel flusso di persone non erano preparati. E chi aveva vissuto Auschwitz era poco utile, gli uomini al limite finivano nell’esercito. Il Paese aveva bisogno di far crescere una generazione sana e non frustrata, triste, disperata come noi. Non eravamo utili alla nascita di una nuova nazione. Alcuni sono rimasti, ma io non ce la facevo, non avevo trovavo un nido e l’accoglienza che speravo. Fu un sogno infranto, ma allora non ero in grado di capirne le ragioni. Alla fine ho trovato il mio pane perduto in Italia».

Lei è stata deportata a tredici anni, ma già prima ha conosciuto la discriminazione. Che infanzia ha vissuto?

«Sono nata già nell’antisemitismo, fin da piccola, era un fenomeno secolare cui si è aggiunta la propaganda nazifascista, persino nel paesino ungherese dove sono nata e cresciuta, e la vita era insopportabile. La mia famiglia era estremamente povera e a questo si aggiungeva l’odio: persino i bambini ci sputavano addosso. Però c’era anche del bene, da parte di alcuni, anche nel periodo più nero dell’Europa. Persino nei campi ho trovato chi ha avuto per me un gesto umano, segni che hanno avuto un significato totalizzante».

Foto di Frederick Wallace, Unsplash

Auschwitz, ma anche Dachau, Bergen Belsen. Sono nomi che fanno parte della geografia dell’orrore da decenni, eppure c’è sempre da raccontare. Come riesce a stare dentro al suo racconto e a sopportarne il peso?

«Purtroppo sono luoghi sempre attuali. Da sessant’anni vado nelle scuole a raccontare ai ragazzi, che vogliono sapere, ascoltano, mi scrivono. È molto consolante per me, è importante che sappiano la verità, perché subito dopo la guerra c’è chi ha subito negato la realtà, appiattito, banalizzato, e questo continua anche oggi. E a scuola i ragazzi imparano molto poco su questi fatti. I primi vent’anni che giravo per l’Italia ho sempre pianto, ci sono momenti del mio racconto in cui non riuscivo a trattenermi. Ad esempio quando ricordo i gendarmi ungheresi che sono venuti con i fascisti a prenderci e hanno dato uno schiaffo a mio padre, o quando mi hanno separata da mia madre. In seguito sono riuscita a consolarmi, sebbene mi capiti ancora, ho pianto anche un mese fa. Ma è un segno positivo, finché piangiamo sentiamo, guai se non ne fossimo più capaci, se non lo facessero i ragazzi: il mondo sarebbe molto più arido di quello che è».

In provincia di Livorno due giorni fa due ragazze hanno aggredito fisicamente un ragazzino accusandolo di essere ebreo. Lei è testimone nelle scuole da tanti anni, quindi vede molte generazioni di giovani e giovanissimi ai quali cerca di trasferire il suo vissuto. Che ragazzi incontra?

«Questa notizia è molto grave, però secondo me imitano i fascisti delle manifestazioni. Non è una bravata, sono ben coscienti di quello che fanno. Nelle scuole italiane trovo sempre interesse, ascolto, mi scrivono ogni giorno. Credo di aver seminato qualcosa in questi sessant’anni. Poi ci sono eccezioni di bullismo, violenza, razzismo, espressi da una minoranza. Ma non per questo non mi preoccupa, perché poi c’è l’emulazione. Dovrebbe preoccupare tutti, non solo i pochissimi sopravvissuti. Con la vita che abbiamo vissuto, vedere questi fatti è molto doloroso».

Teme ancora di non essere creduta?

«Primo Levi pochi giorni prima di suicidarsi mi disse: “ma ti rendi conto che alcune persone credono che diciamo delle favole?”. Era scioccato dai negazionisti, ma io ero meno fragile di fronte a questa cosa. Ho continuato a parlarne, perché negare è un atteggiamento drammatico per noi sopravvissuti. E ancora adesso si appiattisce il significato dei campi di concentramento. Vediamo le manifestazioni a Novara, in cui hanno paragonato il tatuaggio dei deportati con il green pass, vestiti da prigionieri hanno inscenato una marcia che ha fatto della vita di milioni di vite umane una specie di circo. E poi c’è Forza nuova che espone croci uncinate e la bandiera nazista. Per me è una coltellata: quando li vedo la notte non dormo o sogno che la bandiera mi soffochi. Vivo queste manifestazioni in modo terribile, è una offesa che si aggiunge a tante altre ed è triste che possa accadere anche oggi».

Negli anni ha lavorato molto nel mondo del cinema e del teatro. Nota dei cliché nella rappresentazione degli eventi storici sulla deportazione e la Shoah?

«Non sopporto per niente la fiction, nessun film può ricostruire ciò che è accaduto, è tutto falso e danneggia la verità. Ad esempio, il bel film di Roberto Benigni non c’entra niente con i campi, lo ha detto anche lui. Però capita che gli insegnanti mi dicano di aver preparato all’incontro gli studenti facendogli vedere “La vita è bella”».

Come se ne parlerà quando non avremo più la voce dei sopravvissuti? C’è il rischio di un appiattimento nel racconto delle vicende storiche?

«La Shoah sarà più banalizzata e lentamente cancellata in qualche modo, a parte nei musei. Lo hanno fatto subito dopo la guerra, poi negli anni Ottanta ci fu una grande ondata di negazionismo, che ha distrutto psicologicamente Primo Levi, in cui pure alcuni storici hanno negato l’esistenza dei documenti. Questo fatto è un peso sulla coscienza europea e credo che per autodifesa faranno di tutto per azzerare questa parte di storia. I musei sono in fondo dei luoghi importanti ma freddi. Nell’83 ero a Dachau e vidi un’insegnante con degli alunni nel museo, in alcune immagini esposte si vedevano brutali esperimenti scientifici. I ragazzini correvano e guardavano le fotografie ridendo. Ma è colpa nostra. Persino enumeriamo i morti ma non si dice chi siano state quelle persone. Alcune parti del campo di Dachau sono state distrutte. Cercheranno ancora di cancellare la verità di questi luoghi allucinanti. Certo, ci sarà chi andrà a visitare i musei, ma saranno uguali ad altri musei dell’orrore. Non posso dire che l’uomo capirà questi eventi nel futuro».

Visitatori nel campo di concentramento di Auschwitz, foto di Jim McDougall, Flickr, CC BY 2.0

Perchè ha iniziato a scrivere la sua testimonianza in una lingua che non era la sua natale?

«Credo che nella mia lingua nativa non avrei mai scritto, per me l’ungherese era la lingua in cui sono stata offesa. Mi rievoca brutti ricordi d’infanzia vissuti da me e dalla mia famiglia. L’italiano invece è stato la libertà totale, un rifugio, non mi faceva male. È stata la salvezza e lo è ancora oggi, mi fa sentire libera di dire quello che sento. Mi scoccia un po’ quando mi dicono che sono una scrittrice ungherese, perché in realtà sono una scrittrice italiana. Ho scritto tutto in italiano, a mano, sul mio ventre e sul mio ginocchio, tutti i libri di poesia e gli altri».

Che rapporto ha con la scrittura?

«È un rapporto corporeo. La mia mano, la penna, un quaderno: ho sempre scritto tutto a mano. Comincio senza un progetto strutturato, vado di getto e finché non sento che il libro è concluso non smetto. Quello che ho da dire è dentro di me, come una gravidanza. Poi batto a macchina: ho passato tutti i testi con la Olivetti, in quella fase sento un distacco ombelicale, vedo lo scritto da fuori, ma cambio poco. Anche quando mi chiedono un articolo faccio così. Ora mi aiuta un’assistente, che vive con me da quando è morto mio marito (Nelo Risi, poeta e regista, fratello di Dino Risi, ndr). Lei batte al computer e io le detto, controllo poi con la lente di ingrandimento. Anche l’ultimo libro, Il pane perduto, l’ho scritto di getto: avevo dimenticato come si chiama il computer e mi sono allarmata. Potrebbe sembrare normale scordare una parola, invece mi sono spaventata perché ho una memoria forte. Non mi posso permettere di dimenticare niente».

C’è ancora qualcosa che non ha raccontato della sua esperienza nei campi nazisti e del subito dopo e che non ha ancora trovato parola?

«Credo che non ci siano parole per dire quello che ho vissuto fino in fondo. Non sarà mai possibile, ci vorrebbe una nuova lingua inventata totalmente. Le parole che usiamo sono svuotate della loro sostanza, diventano banali. Uguaglianza, amore, patria, sono pronunciate spesso, ma la verità che gli riconosciamo è solo una parte. Con quale parola puoi esprimere un soldato che gioca a calcio con la testa di un bambino? Sono a volte imbarazzata quando vado nelle scuole: mi duole quello che sto raccontando, mi vergogno per l’indicibile del lager. Non voglio in nessun modo buttare addosso a ragazzini questo vissuto, non vorrei rovinare le loro speranze, i sogni, con il degrado dell’essere umano. Dover testimoniare è difficile, se non ci sono parole. Usiamo quelle di ogni giorno, ma per dire certe cose ci vorrebbe un’altra lingua».

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