Esiste una Verona giovane, che sente l’esigenza di raccontare e raccontarsi. Una Verona che fa arte, cultura, musica, una Verona diversa: una Verona che fa rap. L’abbiamo incontrata con Mario Rossi fa rap, band emergente veronese nata nel 2019 dalla collaborazione tra il rapper ventiquattrenne Michele Benetti e i musicisti Emiliano Baldassarri (tastiera), Sebastiano de Gaspari (chitarra), Kirill Bobrov (basso) e Tobia Benetti (batteria).

Il gruppo ha recentemente pubblicato il suo primo EP Che cazzo pretendi, prodotto e registrato da Tokyo (Federico Accordini), ora disponibile in streaming. Cinque brani che parlano del mondo dentro e fuori i ventenni di oggi, lo fanno con la metrica del rap contaminata da liriche strumentali che sfumano tra sonorità di diversi generi.

Michele, partiamo da una curiosità: nessuno della band si chiama Mario. Come nasce allora il vostro nome?

«Fondamentalmente Mario Rossi sono io. Quando ho cominciato a scrivere testi rap ero da solo, nel momento di scegliere un nome d’arte sapevo di voler andare contro la tendenza ad utilizzare nomi inglesi. Ho scelto, quindi, quello più ordinario e italiano possibile. Quando siamo diventati un gruppo ho però realizzato che Mario Rossi aveva un po’ troppo omonimi e così la band ha preso il nome di “Mario Rossi fa rap”».

Il vostro stile si allontana dalla concezione tradizionale del mondo rap e hip hop. Se dovessi definire la tua musica come lo faresti? Se ne avete, quali sono i riferimenti artistici a cui guardate?

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L’EP d’esordio della band

«Se dobbiamo dare una categoria alla nostra musica senza dubbio la inserirei nell’ambito dell’alternative rap. C’è molto hip hop ma ci sono diverse influenze, dal funk al rock e molto di quello che è il panorama indie. Fondamentalmente, scrivo testi rap su musiche che si ispirano a diversi generi.

Tra i riferimenti, il primo nome che mi viene in mente è Willie Peyote, sia a livello di forma che di contenuti è l’artista a cui forse ci avviciniamo maggiormente. Non abbiamo molte influenze dal rap mainstream, nella scrittura di musiche e testi guardo di più alla tradizione italiana della musica d’autore. Tra i miei ascolti c’è il rap alternativo di Caparezza ma anche i grandi cantautori come De Andrè, De Gregori, Rino Gaetano e gruppi più vicini alla scena pop rock come i Baustelle, Brunori SAS, I Cani o tra i più recenti Fulminacci. Senza dubbio, nel nostro background c’è tanta musica italiana e soprattutto canzoni incentrate sui testi».

A proposito di testi, il vostro pezzo La città dell’amore che inquadra un status quo e una visione su Verona molto chiara. Cosa volevi raccontare con questo brano?

«É una canzone che ho cominciato a scrivere nel 2019, quando a Verona si è tenuto il Congresso mondiale delle famiglie. In quei giorni, mi sono davvero reso conto che la mia città, a causa dei molti episodi che purtroppo tutti conosciamo, ha spesso un’immagine legata all’odio e all’intolleranza. Una visione nettamente in contrasto con l’appellativo di “città dell’amore” di cui si vanta e per cui è riconosciuta anche a livello internazionale. 

Ho da poco letto il libro È gradita la camicia nera: Verona laboratorio dell’estrema destra tra l’Italia e l’Europa di Paolo Berizzi, presentato proprio qui in città non molti giorni fa, e nelle sue parole ho ritrovato molto di quello che volevo raccontare con il nostro pezzo.

Quella della città dell’odio è una etichetta che non mi piace, così come credo che non piaccia a tanti veronesi. Ho la sensazione che a Verona ci siano tante persone che non sono razziste o fasciste. C’è una Verona diversa da quella che spesso viene raccontata e volevo darle voce. Ma ci tenevo anche a dire che, secondo me, per cancellare questa etichetta, dobbiamo fare fronte comune contro chi pratica odio e intolleranza e non accanirci, come spesso accade, contro il giornalista, o il politico di turno, che ci incolla sopra l’etichetta.

Anche con il calcio, ad esempio, non è facile. Io sono tifoso dell’Hellas Verona e tante volte mi trovo in difficoltà a far convivere la mia fede calcistica con le mie idee politiche. Questo clima fa male, io a Verona voglio davvero bene, essendo io stesso un “diverso” non la posso odiare. Alla fine credo, davvero, che questa sia una canzone d’amore per la mia città».

Sempre in questa canzone, si parla anche dell’Arena, di come venga sfruttata per un pubblico pagante senza magari essere davvero valorizzata. Com’è fare musica a Verona?

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Il rapper veronese Michele Benetti, in arte Mario Rossi.

«È una frase nata quando, in occasione di un grande evento mainstream in Arena, credo i Wind Music Awards, si parlava di Verona come capitale della musica. L’ho vissuto come un grande paradosso. In quel momento, in cui il settore soffriva pesantemente la pandemia, gli unici eventi che si potevano fare erano quelli con grandi nomi e ancora più grandi sponsor. Fuori invece era tutto bloccato. 

Al di là della pandemia a Verona, per chi fa musica con meno pretese – o meglio, con meno budget – c’è poco e niente. Noi stessi abbiamo sempre suonato fuori Verona, al massimo in provincia. C’è un abisso rispetto altre città, anche molto vicine, come Padova, Brescia e Vicenza, dove ci sono molti più locali ed eventi per fare musica dal vivo. 

E’ davvero una città in cui è difficile fare musica, o comunque cultura in generale. Esistono delle realtà che lavorano bene ma è davvero troppo poco».

Forse non è facile ma voi ci provate. È uscito l’EP, adesso cosa succede?

«Tra i progetti a breve e lungo termine c’è ovviamente quello di portare il più possibile la nostra musica in giro. Siamo nati nel 2019, le occasioni, per ovvie ragioni, non sono state molte. Personalmente, però, vedo la luce in fondo al tunnel e guardo all’estate con ottimismo.  

Inoltre, oltre ai cinque pezzi già usciti, abbiamo tante cose pronte ad essere registrate, sicuramente pubblicheremo altro, spero entro l’anno. Speriamo, davvero, di avere più occasioni per farci conoscere, soprattutto a Verona».

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