Dopo aver affrontato sinteticamente le origini del movimento hip hop, passiamo ad analizzare alcuni tra i più influenti esponenti del genere, in particolare quelli che hanno introdotto qualche innovazione, una componente rivoluzionaria, politica o anche solo violentemente sociale nei propri dischi.

Selezionarne alcuni implica una soggettività da parte dell’autrice, necessaria ai fini di una lettura agile. È evidente come sia impossibile a essere umano riportare tutto tutto, in un pezzo che risulti poi leggibile (e gradevole, si spera) ad altro essere umano. I personaggi scelti sono quindi frutto del gusto personale di chi scrive, che autorizza da subito un eventuale lettore divergente a saltare il paragrafo o, anche meglio, integrare il pezzo con una bella discussione nei commenti.

Chi scrive ama la musica che va contro corrente, la musica che fa litigare e risveglia le coscienze, lasciandone uscire il meglio ma anche il peggio. Il rap offende e irretisce, i suoi testi sono spesso corrosivi e blasfemi.

L’ascoltatore sensibile può trovare altrove storie romantiche e correttezza linguistica; qui si parla di disagio e violenza ma, soprattutto, ci si ride sopra, sfogando la rabbia inagita nelle parole urlate.

Gangsta rap vs conscious rap

Da sempre divisa tra la sua componente sensibile e quella sfrontata e senza limiti, la cultura hip hop mostra una evidente contrapposizione tra il rap politico e il gangsta rap, quello della trinità “gnocca, droga e pistole” che nei testi esalta il successo economico, commerciale e ovviamente sessuale degli artisti, allontanandosi dalla ritmica di base del rap “storico” per introdurre auto-tune e influenze latine.

Foto di Jon Tyson, Unsplash

Il rapper gangsta è quello che appare sempre in festa, in video patinati a bordo piscina con decine di ragazze stupende e adoranti, una pistola placcata oro nella mano e la testa annebbiata da fumi illegali. Non è un caso se la parola “traphouse”, da cui deriva il sub-genere trap, sta a significare, nello slang di Atlanta, un luogo di spaccio e consumo, una di quelle case sporche e fumose in cui fanno irruzione i poliziotti nei film americani.

Ma torniamo sul lato nobile dell’hip hop, sennò diventa difficile nascondere la delusione per la deriva consumistica presa da un movimento nato per denunciare ingiustizia e disuguaglianza. Per controprova che siamo tutti allineati, si prega di ascoltare il disco The Message di Grandmaster Flash per capire meglio il senso di quello che viene definito “conscious rap” che decidiamo di tradurre in rap consapevole. E non si può parlare di rap con un messaggio politico senza citare Public Enemy.

Public Enemy contro il sistema

Il gruppo nasce alla fine degli anni ’80 a Long Island (New York), intorno alle idee di Carlton Ridenhour, più noto come Chuck D, che raccoglie a sé il rapper Flavor Flav, il DJ Terminator X e il coreografo di breakdance Professor Griff. Insieme pubblicano alcuni tra i brani più iconici della presa di coscienza collettiva verso la questione razziale e contro il potere dei media nell’influenzare il sentimento delle masse.

I Public Enemy scrivono di militanza, di diritti, incoraggiando a vedere nei tasti hip hop un riflesso della società americana. Nelle parole di Chuck D alla rivista Spin, il rap diventa «la stazione TV dell’America nera, la sola cosa che mostri la realtà e la verità di come si sentono i giovani neri».

Public Enemy all’Hopscotch Music Festival di Raleigh. Foto di Mehan Jayasuriya, Flickr CC BY-NC-ND 2.0.

Raggiungono l’apice della carriera nel 1989, con l’album “It takes a million to hold us back” (trad. nessuno può fermarci), da cui spuntano pezzi indimenticabili come Don’t Believe the Hype o Fight the Power, che entra nella colonna sonora del film “Do the right thing” di Spike Lee. Il regista gira anche il potente video che mostra i Public Enemy condurre una marcia di protesta lungo le strade di Brooklyn, intonando lo slogan anti-sistema ancora oggi usato dal movimento Black Lives Matter: We gotta fight the powers that be, traducibile con “dobbiamo lottare contro qualsiasi autorità”.

Le controversie per alcune dichiarazioni antisemite di Griff e la reazione poco netta di Chuck D appannano ma non cancellano l’impatto del gruppo sulla coscienza di un’intera generazione. L’impostazione del rap può ricordare un comizio politico e la voce tonante di Chuck D si adatta bene a un simile ruolo.

Ma Public Enemy e i rapper coscienziosi non sono politici, non fanno politica. Svegliano le coscienze, però, mica trottolino amoroso du du da da da.

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Stop the violence

Uno dei più efficaci esempi di attivismo hip hop è forse stato il singolo Self Destruction, prodotto nel 1989 dal gruppo Stop the Violence Movement, una coalizione tra numerosi rapper di successo (tra cui Public Enemy) trainati dallo spirito indomito del padre fondatore del genere, KRS-One.

Il disco era al tempo stesso un’opera di beneficenza per la National Urban League e un movimento di protesta contro la piaga del crimine nelle comunità nere. Nel suo sermone rap, KRS-One identifica il «problema dell’America oggi» (citazione dal famoso discorso di Malcolm X) nelle divisioni interne alla comunità, dove «i fratelli rubano uno all’altro» invece di «essere uniti a combattere per quel che è giusto».

Il video del brano del 1989 Self destruction dellla coalizione Stop the Violence Movement.

Nella parte finale, affidata a Public Enemy, Chuck D esorta a superare le divisioni e afferma che loro, i rapper, «esistono solo per l’amore della (loro) gente». Parlano alla gente comune ma il messaggio è destinato anche ai colleghi, con l’ambiente funestato da continue aggressioni, sparatorie e uccisioni tra le diverse gang.

La faida tra Est e Ovest

Tupac e Biggie hanno una storia molto simile: entrambi nascono a New York nei primi anni ’70, in quartieri degradati; entrambi hanno un padre che li abbandona e una madre problematica. Vivono un’infanzia nella povertà e nella violenza.

Anche quando nel 1988 Tupac si trasferisce con la famiglia a San Francisco, le loro vite continuano a scorrere parallele, tra armi sotto la giacca, bella vita e dischi che vanno ai vertici delle classifiche. La scrittura di Tupac Shakur è forse più politica e sociale, anche introspettiva, mentre The Notorious B.I.G. preferisce alimentare la sua fama criminale e riunisce tutti gli amici d’infanzia in una crew di grande successo, opportunamente chiamata Junior Mafia.

La rivalità geografica, con il dominio dalla West Coast minacciato dai ragazzi di Brooklyn, fa il paio con quella personale: tra i due rapper nasce un’amicizia di facciata, più volte messa alla prova e costellata di dissing vecchia maniera, a suon di canzoni. Purtroppo, si passa velocemente ai fatti violenti.

In primo piano, la statua di cera del rapper Tupac Shakur esposta al Madame Toussaud di New York. Sullo sfondo, la riproduzione del rivale Notorius Big, al secolo Christopher George Latore Wallace. Foto di Scarlet Sappho, Flickr CC BY-SA 2.0.

La rottura probabilmente avviene in occasione dell’agguato a Tupac, accaduto a Manhattan nel 1994. Entrambi i rapper sono impegnati nei Quad Recording Studios e, mentre Tupac e i suoi stanno per salire in ascensore, due neri in tenuta militare gli sparano cinque colpi. La reazione dei colleghi legati a Biggie – «non potevano credere che fossi ancora vivo!» dirà in un’intervista -, indusse Tupac a incolpare lo storico rivale.

Anche nel finale la storia dei due nemici è molto simile. Nella notte del 7 settembre 1996, Tupac viene raggiunto da 12 colpi sparati da un’auto affiancata alla sua a un semaforo. Sei mesi dopo, il 9 marzo 1997 è il turno di Notorious, stesso metodo, stessa fine. Ma non c’è tempo per piangere due dei più influenti rapper della scena, sta arrivando qualcuno che romperà di nuovo gli schemi.

Eminem

Marshall Mathers, in arte Slim Shady o Eminem, nasce nel 1972 a Detroit, figlio anche lui dell’America di sussistenza, senza un padre e con una madre distruttiva. Sembra insomma che gli ingredienti necessari a fare un buon rapper ci siano tutti, ma Eminem si distingue da tutti gli altri.

Per prima cosa non appartiene geograficamente a una delle due “coste del rap” e può quindi sentirsi libero dalle sovrastrutture dei due generi in eterno conflitto. E poi, sembra banale ma in quel contesto non lo è per niente, è bianco (oltre a lui nel periodo precedente solo i Beastie Boys). Non appoggia la causa dei fratelli neri, se ne disinteressa proprio e si fa largo sulla scena musicale combattendo nelle freestyle battle proprio contro i neri.

Eminem in un concerto del 2011, foto EMR, Flickr CC BY 2.0.

Eminem resta tuttora, dopo vent’anni dal suo primo disco, l’artista rap più venduto al mondo, con ben oltre 100 milioni di singoli digitali solo negli Stati Uniti, e il migliore degli anni 2000 in tutti i generi. Perfino ora che luccicano meno, i suoi album continuano a raggiungere i vertici delle classifiche. Ha insomma dimostrato che l’hip hop può conquistare il mondo economicamente, non solo come ispirazione culturale.

Alla fine degli anni ’80 il rapper Rakim aveva rivoluzionato il genere, mescolando beat diversi e spostando le rime all’interno delle parole anziché alla fine dei versi. Eminem esalta ancor di più il fenomeno, rappando a velocità incredibili, usando al meglio gli incastri di rima e con una ritmica spesso imprevedibile e scostante.

Si inventa diversi personaggi che possono interagire nella canzone, utilizzando tonalità e velocità diverse. Libera il rap dalle rigidità e apre la strada alla sperimentazione vocale, subito seguito da altri coraggiosi (Kendrick Lamar, con le sue tante voci ne è un esempio: nel 2018 ha ricevuto un Pulitzer per la musica, primo rapper a ottenere questo riconoscimento).

Protagonista di video indimenticabili, quasi piccoli film, Eminem rivoluziona anche il testo in senso stretto: le liriche, in pieno spirito hip hop, sono pesanti, disturbano e offendono. Portano però per la prima volta alla ribalta una storia personale.

In un ambiente pervaso di machismo e violenza, lui riscopre le fragilità umane, l’oscurità dentro ognuno di noi e parla della sua infanzia, dei pensieri violenti, delle dipendenze. È un paria nel suo mondo, un diverso, emarginato. E non ha paura di dirlo.

Certo, condisce le canzoni di contenuti espliciti, fa sollevare molti sopraccigli per mettere in vetrina argomenti tabù o scomodi e in generale si fa odiare parecchio. Ma è l’hip hop, bellezza!

Il linguaggio

Eh già, l’hip hop ha un suo linguaggio, pesante e, come dicono gli americani coi loro begli adesivi, explicit (ovvero volgare). Ma chi scrive, figlia more uxorio del peggior punk rock, oltre a peccare spesso di scurrilità, preferisce la musica forte, che oltraggia; con il rap è come essere a casa.

Il gergo usato è violento, sessista, offensivo nei confronti di tutto e tutti. Insulti e razzismo sono diretti a qualsiasi categoria senza eccezioni. Se anche, prese singolarmente, le canzoni indignano una volta le donne, altre gli orientali, altre i repubblicani, guardando al quadro più grande l’insulto generalizzato diventa, per quanto all’apparenza assurdo, una forma di anti razzismo. È egualitario, nell’offesa.

Foto di Antoine J., Unsplash.

E questa caratteristica è trasversale a tutti i generi: si trova nel rap degli albori, ovviamente nel gangsta e trap, perfino nel conscious rap. È un elemento imprescindibile quanto il beat, una sorta di lente attraverso cui l’occhio attento può riconoscere la realtà e i suoi limiti. È il condimento che rende possibile ingoiare la pillola della vita, renderla almeno un po’ più digeribile.

C’è un effetto che ascoltare rap ha su tutte le persone, anche quelle più rigide. Arriva sempre un punto nella canzone in cui chi ascolta, irrimediabilmente, sorride. Il rap non è politica, non difende i deboli, non pretende di cambiare il mondo. Vuole solo far divertire, alleggerire. Evoca, anziché raccontare; suggerisce, invece di istruire. Lo fa usando il suo linguaggio, uno slang che è anche appartenenza, uno stile che identifica. E no, non è musica per orecchie tenere.

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