Inizia con questo articolo una serie che intende ripercorrere le strade che hanno portato l’hip hop dal block party del Bronx fino a diventare un fenomeno globale, il cui successo non accenna a calare. Parleremo delle origini, dell’evoluzione (e involuzione, o cambiamento come lo chiamano alcuni) e racconteremo alcune delle sue figure carismatiche.
L’idea è di arrivare poi alla scena italiana e, chissà, forse anche locale.

Non solo musica

L’hip hop non è soltanto musica ma un vero e proprio movimento culturale che è riuscito a trasformare il disagio, la povertà in successo e ha accolto sotto il suo mantello diverse forme artistiche. Oltre alle tecniche innovative introdotte dai dj e all’espressione vocale di rapper e MCs, la subcultura include la breakdance e forme artistiche visuali come i graffiti. Ognuna di queste componenti si è poi ulteriormente sviluppata in tante derivazioni più specifiche, assecondando l’animo umano e la sua voglia di divertirsi.

La breakdance nasce negli anni Settanta e in poco tempo diventa una delle discipline della cultura hip hop.

La rivoluzione ha poi toccato ambiti impensabili: la moda si è riempita di marchi nuovi dedicati allo stile di strada, tra cui quello famosissimo del rapper Kanye West, per citarne uno. Ha influito sui programmi scolastici, entrando di prepotenza sia nella scuola secondaria che nei corsi di studio superiori, sulla scia del riconoscimento della cultura afroamericana nel suo complesso. Senza contare l’impulso dato ai media, alla comunicazione e anche alla tecnologia stessa, a supporto dei nuovi linguaggi.

Ben prima di tutto questo, uno dei protagonisti, il rapper KRS-One, aveva raccontato la differenza tra la forma espressiva ritmata e a rima baciata, il rap, e il mondo da cui promana: «rap è qualcosa che fai, mentre hip hop è il tuo modo di vivere».

Le radici nell’asfalto

Il movimento nasce nel Bronx nei lontani anni Settanta, in una New York City segnata dall’esodo delle classi medie verso le periferie residenziali, che lasciano il quartiere alle minoranze povere e spostano l’asse degli investimenti cittadini anche a livello sociale.

Afroamericani, portoricani e immigrati caraibici si ritrovano in un quartiere la cui economia è al collasso, abbandonato dall’industria e con criminalità crescente. I giovani hanno poche prospettive e ancor meno luoghi di aggregazione; portano in strada i loro sound systems e mettono dei semplici cartoni in terra per i ballerini di break dance, i B-Boys (and Girls). Gli edifici abbandonati diventano le tele per i dipinti di artisti rivoluzionari.

Universalmente, la nascita del movimento viene riconosciuta alla cosiddetta Holy Trinity, formata DJ Kool Herc, Afrika Bambaata e Grandmaster Flash.

DJ Kool Herc

È un immigrato giamaicano che si dice abbia fatto la storia, inventandosi nel 1973 la “Back to School Jam”, festa di quartiere considerata origine stessa del movimento. DJ Kool Herc introduce la tecnica della breakbeat, un modo di mixare i dischi facendo girare due copie dello stesso e saltare dall’una all’altra per prolungare all’infinito la parte relativa alle percussioni (il beat, appunto, pilastro fondamentale della subcultura). La sezione così creata, detta break diventa presto il momento della canzone che tutti attendono e su cui tutti ballano, anche i breakdancer.

Dj Kool Herc nella foto di Richard Alexander Caraballo, Flickr, CC BY-NC-SA 2.0.

Ma Kool Herc si inventa in qualche modo anche la prima forma espressiva dell’MC, quel ragazzone che urla nel microfono, preannuncia il break e chiama la gente in pista.

I nonni raccontano ai nipotini che la prima rima rap venga proprio da lui, quel This is the joint! Herc beat on the point (che tradurremo liberamente con: questo è il posto, il beat di Herc a ogni costo!). Prosegue il cammino l’amico di sempre e suo assistente sociale Coke La Rock che, introducendo rime più complesse associate alla ritmica particolare del break, di fatto crea dal nulla il rap.

The Godfather, Afrika Bambaataa

Il “padrino” compare sulla scena del Bronx a fine anni Settanta e con le sue jam di strada, i block party, concorre a togliere i giovani dalla vita di gang, da droga e violenza. La sua organizzazione Universal Zulu Nation incoraggia l’unità e la pace tra tutte le persone attraverso la cultura hip hop, insegnandone i segreti ai ragazzi e dando loro un’alternativa positiva. Cosa che dopo tanti anni, “the nation” continua a fare in tutto il mondo.

A destra, il rapper e deejay Afrika Bambaataa, foto di Blacren, Flickr, CC BY 2.0

Nel 1982, esce la canzone di Bambaataa Planet Rock in cui introduce per la prima volta il suono elettronico nell’hip hop, con l’aiuto della Roland TR-808, la batteria elettronica che diventerà negli anni amico inseparabile di chiunque si affacci al genere.

Grandmaster Flash

Sempre originario del Bronx, è lui a completare la sacra trinità. Dj ispirato e innovativo, introduce tecniche come l’utilizzo dei dischi in senso antiorario e la prima forma di scratch, ovvero il “graffio” convulso su una parte di traccia ottenuto spostando il disco avanti e indietro velocemente.

Con il suo gruppo, i Furious Five, porta alla ribalta una nuova tipologia di rap che coinvolge a turno i quattro rapper, di fatto eleggendo a forma d’arte le cosiddette free-style battles, cioè le gare a versi liberi che si svolgono per strada e nelle jam. Si tratta di scambi verbali su un tema predefinito, in cui gli interpreti mettono alla prova le proprie capacità di improvvisazione e creatività.

Grandmaster Flash al James Lavelle’s Meltdown Festival del 2014, foto di Victor Frankowski, Flickr, CC BY 2.0.

Ma avremo modo di parlarne più avanti. Ora conta ricordare l’apporto di Grandmaster Flash alla trasformazione del rap, elevato dalle rime basiche e scarne a versi che raccontano il disagio, la povertà e il ghetto.

I tecnologici anni Ottanta

È il momento dell’evoluzione elettronica del genere, coinciso con il più facile accesso a sintetizzatori, campionatori e batterie elettroniche come la già citata TR-808 dai bassi poderosi. I produttori hanno a disposizione strumenti per arrangiamenti sempre nuovi e un intero portafoglio di musica già pubblicata da prendere in prestito per comporre le basi. Negli Usa manca ancora, in quegli anni, una legge che protegga il copyright, problema a cui il Governo metterà una pezza dopo le proteste degli artisti originari, stanchi di vedere la propria creazione stravolta e soprattutto di non guadagnarci niente.

Col perfezionarsi delle tecnologie, si iniziano a riconoscere nuove tecniche sia per la fase dj che in post-produzione: arrivano le sonorità a più livelli sovrapposti, il looping e perfino l’aggiunta di effetti speciali. Sì, certo sappiamo che non si è inventato niente, che lo facevano anche i Beatles e i Pink Floyd. Ma qui raccontiamo tutta un’altra storia.

Una foto esposta al National museum of african american history and culture di Washington, foto di Mike Von, Unsplash.

L’età dell’oro

Da metà anni Ottanta e inizio anni Novanta la cultura hip hop trasforma il tessuto sociale giovanile americano e continua a trasformare anche se stessa. Le case discografiche ufficiali riconoscono il genere musicale e vi investono grandi capitali ma nascono anche etichette indipendenti come Def Jam o Tommy Boy. Il mercato viene inondato di dischi, ma la domanda sembra non smettere di crescere.

L’introduzione di brani campionati da altra musica, di stili diversi, dal jazz al soul, fino al rock, crea una moltitudine di stili differenti, che si caratterizzano geograficamente, in base alle diverse influenze. E con la musica si evolve anche la componente lirica, che diventa più metaforica e complessa; il testo vuole toccare temi di disagio personale ma soprattutto sociale, temi politici, si potrebbe dire.


Determinanti in questo passaggio sono artisti come KRS-One, Rakim e Chuck D, veri e propri attivisti della causa quando ancora non c’erano i Black Lives Matter. Vogliamo però ricordare anche l’influenza di personaggi come LL Cool J o Beastie Boys nel far diventare il genere davvero popolare.

Hip hop lifestyle

Come si diceva, la musica hip hop in questo periodo trasforma anche il modo di vestire, il taglio di capelli e il modo di parlare. Scarpe e accessori raccontano chi sei, la tua appartenenza e lo slang della strada viene riconosciuto come forma espressiva nelle scuole, con alcune parole incluse addirittura nell’Oxford English Dictionary.


L’introduzione delle leggi sul copyright rende molto costoso l’uso di campionature e costringe i produttori a creare la propria musica, portando il genere verso tutto un altro suono. Si amplificano quindi le differenze regionali, con la corrente della costa orientale opposta a quella californiana e alla “terza costa”, quella affacciata sul golfo del Messico; nascono numerose correnti, con influenze e sonorità locali, legate a un territorio e riconoscibili nello stile, sia musicale che delle parole.


Entra nella parlata comune il verbo “diss”, per indicare le provocazioni e gli insulti che i rapper si inviano tra loro attraverso i testi della propria musica, che citano caratteristiche inequivocabili del rivale di turno in lunghi botta e risposta che spesso sfociano in vere faide armate. Ma anche di questo parleremo a breve. Per ora suggeriamo di rispolverare i vecchi brani di Dr.Dre, Tupac o The Notorious B.I.G. e perfino Jay-Z o N.W.A. provando a trovare tutto il dissing nascosto nei testi, che poi interroghiamo a salto.

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