Nomen omen. Un nome, un destino, o meglio una professione: quello di Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Espanol von Braucich ha due aspetti importanti. Il primo sta in quel secondo nome, Felice, che in una vita piena di avventura e di incontri racconta molto di questa ragazza vivace. Il secondo sta tutto nella lunghezza: se ci si mette qualche minuto a pronunciarlo per intero, altrettanto ci si impiega per enunciare buona parte dei titoli dei suoi film.

Delle sue origini svizzere ha solo il suono delle generalità, perché per il resto nelle sue vene scorre il fermento di una donna del sud. Nessun problema con il successo: tra enormi riconoscimenti anche all’estero da parte della critica e del pubblico, altri lavori sono stati un fiasco, che Lina accetta come facesse spallucce. Perché il suo è un rapporto a tu per tu con il cinema e quello che conta è che il film piaccia a lei.

Sarà anche perché i suoi inizi sono avvenuti a fianco di un maestro come Fellini, genio dell’ironia e di una superiore, attenta leggerezza. Un incontro che Lina deve a Flora Clarabella, sua compagna di scuola, in seguito moglie di Marcello Mastroianni. E quell’amicizia con il grande regista, di cui è stata l’aiuto nel 1960 sul set de “La dolce vita” e due anni dopo in “Otto e mezzo”, è stata per lei come «aprire una finestra e scoprire un paesaggio che non conosci».

Che bambina era Arcangela Felice Assunta?

«Da subito sono stata Lina. Una bambina terribile cacciata da ben undici scuole. Per fortuna, in una di queste ho conosciuto Flora, che faceva teatro».

Quando ha capito che voleva fare cinema?

«La mia non era una famiglia artistica, mio padre era avvocato e nessuno faceva cinema o spettacolo. Ma forse l’indole l’ho presa da mia madre».

La sua carriera è densissima: non solo cinema, ma anche televisione, radio, teatro, persino opera lirica e letteratura. In quale veste si sente più a suo agio?

«In tutte. E’ da tutta la vita che scrivo, perché mi spinge a raccontare il mio interesse per tutto ciò che ho attorno».

Ha lavorato con artisti famosi e giovani che ha contribuito a lanciare anche all’estero. Quali di questi professionisti ha di più nel cuore?

«Li porto tutti con me. Con ciascuno ho vissuto bellissime esperienze sul set. Certo, penso subito a Mariangela Melato, Sofia Loren, Giancarlo Giannini, ma anche Veronica Pivetti e Gabriella Pession».

La regista Lina Wertmüller ripresa dal fotografo Augusto De Luca, CC-BY SA 2.0

Nei suoi film la società italiana è ripresa con ironia e senza compiacenze. Anche le figure femminili sono donne comiche, assurde, riprese nelle loro manie…

«In realtà non ho mai fatto film comici, né semplici commedie. Il mio è un cinema che gioca con il grottesco. E certo, la peggior cosa per una donna è che sia noiosa. Non siate noiose, donne! Essere sussiegose non giova se si è veramente delle persone serie. Ed essere prese troppo sul serio molte volte è una trappola, si diventa una macchietta».

Come vede cambiata la donna in questi anni?

Non ho mai ritenuto doveroso raccontare il divenire delle donne, però ho sempre osservato i mutamenti sociali, senza assecondare troppo le tematiche femministe o, peggio, con l’intento di dare delle indicazioni al femminismo. Mi hanno sempre interessato che donne che lavorano, sia per il loro ruolo sociale, sia per offrire una sorta di messaggio di erudizione. Oggi, tutto sommato, le cose sono migliorate, perché il femminismo è stata un’arma a doppio taglio. Il cambiamento deve però continuare e credo che proseguiremo su questa strada grazie all’affermarsi di donne brave, preparate in diversi ambiti. Basti pensare a cosa hanno fatto Golda Meyr, Margareth Thatcher o Madre Teresa di Calcutta. Non è ancora un cammino in discesa, perché nel mondo c’è davvero tanto da fare. Speriamo solo che le donne sappiano fare meglio».

Wertmüller durante le riprese per il film I basilischi, del 1963

Henry Miller l’ha definita una “regista migliore di qualsiasi altro uomo”. Il suo essere donna le ha permesso di fare la differenza dietro la macchina da presa?

«Non so che dire. Un autore in realtà vive come un Giano bifronte: quando scrivi una storia diventi i soggetti che racconti, devi essere capace di entrare nei loro panni. Forse questo è un aspetto femminile, ma mi dà fastidio quel sapore “rosa” di certe autrici, con quei titoli tutti basati su cuore, amore, animuccia mia…Nei miei titoli invece faccio l’opposto: “Peperoni ripieni e pesci in faccia”, l’ultimo mio film, non concede smancerie ma parla ugualmente di rapporti famigliari e affettivi».

Già, i suoi titoli. Perché spesso sono chilometrici?

«E’ uno scherzo, soprattutto per i produttori che preferiscono titoli corti, così nelle locandine e nei trailer possono essere ingranditi e fare impatto. Ma io amo giocare con gli spettatori».

C’è qualcosa che vorrebbe farsi perdonare?

«Vorrei farmi perdonare dal pubblico che mi segue di non riuscire a fare tutti i film che vorrei. Ho pronto il seguito di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, del 1974, e non riesco a metterlo in lavorazione. Tutto nel cinema è diventato più complicato, anzi, è peggiorato di molto. La struttura stessa è malata. Concause sono la società che è emersa negli anni Ottanta e l’imperversare della tv. La gente ha smesso di andare al cinema come faceva anni fa. Si sperava che le multisale avrebbero sostenuto almeno in parte i film italiani. Invece hanno avuto la meglio le logiche della distribuzione, con le pellicole targate Usa che imperversano, senza dare spazio e programmazione adeguati al made in Italy. Una politica miope, che danneggia la qualità».

Lina Wertmüller posa per il fotografo Augusto De Luca, CC BY-SA 2.0

Sua sigla di riconoscimento sono senz’altro i suoi mitici occhiali bianchi. Come è nato questo vezzo?

«Ah, i miei occhiali, per me sono profumati di vacanza. E’ stato amore a prima vista. Li vidi in un negozio di Capri molto tempo fa e, dato che ero miope, li comprai. Mi piaceva come mi stavano, erano strampalati, però un giorno si ruppero. Tornai nel negozio, ma non ce n’erano più. Così cercai qualcuno che potesse farmeli uguali. Trovai un artigiano che aveva una fabbrica. Gli chiesi quale fosse l’ordine minimo da fare perché me li costruisse. Mi disse: “cinquemila”. Da allora non sono più rimasta senza».

Non sono mai stati un complesso?

«Mi ritengo una bruttarella, ma con un corpo carino. Sono sempre stata consapevole dei miei difetti ma ho vissuto sempre il rapporto con il mio corpo e con gli altri con allegria. Mi sono fatta anche qualche ritocchino: la plastica al naso, ad esempio, ed anche al fondoschiena qualcosa ho fatto. E ancora penso che qualcosa farò, giochiamo a migliorare. Con gli occhiali vale lo stesso: come un vestito, vanno interpretati. Si devono scegliere quelli  giusti per il proprio viso, pensare che sono come il frontone di un tempio greco».

Un difetto che è diventato un pregio, quindi?

«E’ da molti anni che ho fatto l’intervento per correggere la miopia. Oggi ci vedo benissimo, ma alla mia montatura non rinuncio. Ho veramente attaccato la faccia ai miei occhiali».

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