L’aumento dei numeri delle migrazioni è un tema molto caro alla politica italiana, cavalcato da più parti per convogliare i sentimenti del popolo e indirizzarne le reazioni. Si tratta di una forma subdola di manipolazione dell’elettorato, che sfrutta la paura come carburante per accendere proteste e creare consenso o dissenso. Si fa politica sulla pelle delle persone, di rifugiati politici o economici che vanno in cerca di una vita migliore, a volte mirano alla semplice sopravvivenza. Quella sopravvivenza che per chi vive in una zona di guerra è l’unico pensiero al risveglio e l’ultimo prima di arrendersi al sonno.

L’esempio di Libia e Turchia

La manipolazione del consenso attraverso le “invasioni di migranti”, gli “sbarchi incontrollati” e le rivendicazioni alla “quando c’ero io” è semplice, a costo minimo e apparentemente molto efficace. Ma si sa, appena uno inventa qualcosa, c’è sempre un altro pronto con l’upgrade; ecco quindi che la questione migrazioni diventa uno strumento ancora più potente, una vera e propria arma. Come ci hanno mostrato le due situazioni parallele in Libia e Turchia, esiste una guerra senza colpi sparati tra i contendenti, una guerra ibrida ma non nel senso comune che coinvolge intelligence e tecnologie, bensì per la strumentalizzazione di esseri umani funzionale al proprio scopo, spesso nemmeno tanto nobile, peraltro. La buona guerra ibrida ha funzionato prima in Libia, a cui l’Unione Europea fornisce finanziamenti per miliardi di euro, attrezzature militari e formazione sul campo; tutto perché collabori nel trattenere i migranti dell’Africa sub-sahariana e riporti a terra i loro gommoni. È andata anche meglio al sultano Erdoĝan, che viene ricoperto d’oro dalla UE, assecondato nelle sue assurde decisioni macroeconomiche e sopportato in silenzio nelle più crude esternazioni illiberali.

Il metodo è semplice: basta creare dei campi di accoglienza, usare una parte degli aiuti per i beni essenziali, ogni tanto lasciar scappare qualche disperato pro-memoria e, se la UE si mette di traverso con una sana presa di posizione su un tema anche trascurabile, rimetterla subito al suo posto con un’apertura improvvisa dei cancelli. L’immagine più trita usata dai media per descrivere le migrazioni è il fiume umano e, in effetti, le colonne di donne e uomini con sacchi di plastica per bagaglio e bambini sulle spalle ricordano il movimento dell’acqua. Immaginate che, a un certo punto del loro cammino, trovino una diga: sono costretti a fermarsi e si ammassano sempre più. E poi il grande dio delle acque, stizzito da qualche dichiarazione d’intenti avversi al suo volere, apre una paratia e l’enorme cascata si abbatte sull’altro lato del confine. Una cascata che però è fatta di persone. Persone (no, non è un errore, è proprio scritto due volte), esseri umani.

La versione Lukashenko

Al fronte mediterraneo e a quello balcanico – altro abominio a cielo aperto indegno di una società che si professa civile – si è aperto da qualche tempo quello bielorusso, nella Russia Bianca e il suo presidente Aleksander Lukashenko, quel bell’uomo progressista e morigerato. È lui che ha represso nella violenza, con molti morti e migliaia di feriti, le proteste successive alla sua rielezione nell’agosto 2020, in consultazioni popolari definite inaccettabili dagli organismi di controllo imparziali. Sempre lui ha costretto moltissimi politici e attivisti dell’opposizione alla fuga all’estero ed è arrivato a dirottare un aereo diretto a Vilnius con 150 persone a bordo, tra cui il dissidente Roman Protasevic, prontamente incarcerato. Lukashenko studia bene le sue mosse, imparando da illustri colleghi e preparando a lanciare il nuovo modello, aggiornato e con un processore velocissimo, il PutinX.

Inizialmente ammassa migranti, in massima parte fuggitivi dal disastrato Medio Oriente, verso i tre Paesi UE con cui confina la Bielorussia (Lettonia, Lituania e Polonia) ma non ottiene reazioni conciliatorie dalla UE, le sanzioni restano valide e non si percepisce alcuna intenzione di cambiare atteggiamento. Forse sono i numeri a non impressionare, tutto sommato sembrano gestibili per la macchina europea dell’accoglienza; quindi, l’uomo che «mai si inginocchierà all’Europa» prende di mira la Polonia, Paese storicamente più permeabile al terrore contro l’invasore estero e con un Governo di per sé molto simile a quello bielorusso, almeno in tema di diritti civili.

Il premier polacco Mateusz Morawiecki rifiuta l’aiuto europeo nella gestione degli arrivi, non sa che farsene di Frontex ed Europol; preferisce far votare lo stato di emergenza, con divieto di accesso alle aree di confine, dove schiera 12mila uomini dell’esercito e, in un colpo di genio, vieta l’accesso alla stampa. Ha isolato 200 città, incurante di chi ci vive; insomma, ha solo preso le stesse decisioni di un Lukashenko qualsiasi.

Nella terra di nessuno tra i due Paesi, la polizia bielorussa spinge migliaia di persone (si parla di 4mila in 48 ore), molte delle quali arrivate con voli della speranza incentivati da pubblicità che definiscono candidamente la Bielorussia la porta per l’Europa. Sicuramente l’aumento consistente dei voli da Turchia, Afghanistan, Iraq o Emirati verso Minsk è conseguenza del divieto per le compagnie europee di sorvolare lo spazio aereo bielorusso ma da più parti nella comunità internazionale emerge il sospetto che ci sia una trama definita, con tanto di finale prevedibile.

Lo “stallo alla messicana”

Da una parte uno Stato europeo che costruisce barriere di filo spinato e lancia lacrimogeni respingendo i derelitti, dall’altro la Bielorussia che raccoglie e sospinge masse di rifugiati politici verso il confine. Da un lato l’ultimo baluardo, anche militare non dimentichiamo le basi NATO, dell’Europa e il mondo liberista contro l’oriente, la Russia, il comunismo; dall’altro due presidenti (uno ex e l’altro sovietico) che scelgono gli stessi giorni della crisi migratoria per i loro periodici giochi di guerra e per un accordo di riunificazione economica, chissà forse un domani anche politica. In mezzo ci sono migliaia di persone senza cibo né servizi, esposte alle intemperie e al freddo, in una zona vietata ai giornalisti così come alle associazioni umanitarie. Persone.

A qualcuno importa, ma non a tutti

La situazione, ancora una volta, provoca lo “sconcerto” della UE, ma poco altro. L’Europa appare silenziosa, colpita nel punto più vulnerabile, dove già una frattura si era creata per altri temi; appare giunto il momento per tutti i Paesi UE di ascoltare davvero le lamentele di Italia, Spagna e Grecia, che da anni si confrontano con situazioni ai limiti dell’umanità, molto spesso lasciati soli o con una pacca sulle spalle di incoraggiamento. Quando Morawiecki si rivolge al Parlamento dicendo che «questa è una provocazione politica ad ampio raggio ma non è solo un conflitto diplomatico, un attacco potrebbe essere probabile» sta parlando da europeo, non solo da polacco. Mentre il tanto pubblicizzato Patto sulle Migrazioni e l’Asilo Politico non trova spazio per la discussione e vede l’approvazione allontanarsi in un futuro incerto, l’Europa deve provare a ritrovarsi nelle buone politiche da espandere e rifinanziare, ma anche sulle decisioni comode da rimangiarsi. Ci sono migliaia di persone abbandonate nella terra di nessuno. E ci sono sempre più terre di nessuno, tutto intorno a noi.

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