Grazia Maria Cosima Damiana Deledda nacque a Nuoro il 28 settembre del 1871 in una famiglia benestante, quinta di sette figli, ma la consuetudine del tempo le permise solo un’istruzione elementare fino alla quarta classe e poi una breve prosecuzione a cura di un precettore. Leggeva molto la giovane Grazia, e di nascosto, perché la lettura era attività ritenuta poco adatta alle femmine. Sebbene scoraggiata dalla famiglia, a tredici anni cominciò a scrivere novelle, e a diciassette venne pubblicato il suo primo racconto Sangue sardo su una rivista romana. Presto accarezzò anche il desiderio di fuggire a Roma, a suo dire il luogo ideale dove avrebbe potuto meglio realizzare il sogno di affermarsi come scrittrice.

Le è stata rimproverata una qualche forma di arrivismo, anche se era qualità esaltata negli uomini, ad esempio nel suo contemporaneo Gabriele D’Annunzio, ma va riconosciuta a questa donna la volontà di ribellarsi alla tradizione radicata che voleva le donne solo moglie e madri e, se dedite alla scrittura, con il permesso di esercitarla a tempo perso, in privato, senza ambizione e senza competizione con gli scrittori.

Nella sua autobiografia postuma Cosima (1937), memoriale scritto in terza persona che risente delle pesanti cesure operate dai figli, si evince quanto fu doloroso il distacco dalla famiglia, dalle tradizioni, dalla terra, colpevolizzata per il fatto di voler far valere il diritto di autoaffermazione.

La querelle con Luigi Pirandello

Luigi Pirandello nel 1934, anno in cui fu insignito del Premio Nobel

Deledda si trasferì a Roma in seguito al matrimonio con un impiegato del ministero delle Finanze, Palmiro Madesani, che diventò il suo agente letterario, e dall’unione nacquero due figli. Con malcelato sarcasmo Luigi Pirandello lo chiamava “Grazio Deleddo”, ma non è improbabile che i suoi strali derivassero dalla cocente delusione di veder attribuito a Deledda il Premio Nobel nel 1926, a lui arrivò poi nel 1934.

Incontrava i coniugi Madesani nel salotto culturale di Giovanni Cena e si è pensato a lungo a uno scontro fra temperamenti molto diversi; in realtà doveva esserci una vera e propria competizione professionale. Del resto, lui non faceva mistero di ritenere la scrittura femminile un vezzo modaiolo privo di prestigio e destinato a rimanere un fenomeno sottoculturale.

I rapporti con il regime fascista

Mussolini preferiva Ada Negri (1870 – 1945), è cosa nota, quest’ultima era conosciuta come un’intellettuale organica al regime, aveva ricevuto il Premio Mussolini, a consolazione del mancato Nobel, ed era stata ammessa come unica donna nella Reale Accademia d’Italia. Dal canto suo, nel discorso di ringraziamento a Stoccolma, Deledda rivolse un omaggio al re di Svezia e al re d’Italia, ma nessun cenno al Duce. Tuttavia egli non poté più ignorarla anche se il suo pensiero sul genio femminile era conosciuto: «La donna ha indiscutibilmente minore intelligenza dell’uomo. Credo, ad esempio, che la donna non abbia grandi capacità di sintesi e quindi sia negata alle grandi creazioni intellettuali e spirituali». La convocò per la stesura di un libro di testo per le scuole e la scrittrice pagò questa collaborazione con l’epiteto di “maestrina del fascio”. Deledda riuscì poi a sfruttare il suo acquisito ascendente su Mussolini strappandogli la grazia per il suo amico nuorese Elia Sanna. Per ironia della sorte, venne a mancare il giorno di Ferragosto 1936, la festa che il regime aveva fortemente voluto a metà estate.

Amicizie con altri autori

I critici non l’apprezzavano, eccetto Emilio Cecchi, ma tra i suoi ammiratori contava Giovanni Verga, Edmondo De Amicis, Federigo Tozzi, Sibilla Aleramo, che aiutò economicamente in un momento di difficoltà e, in qualche misura, anche Ada Negri e Matilde Serao, nonostante i rapporti con quest’ultima si interruppero dopo il 1926. Negli anni Venti frequentò Marino Moretti, Filippo De Pisis, Giuseppe Ungaretti, Alfredo Panzini al quale si deve un folgorante ritratto dell’autrice: «Quella piccola signora è la grande scrittrice Grazia Deledda. Io credo che si possa chiamare così senza invocare l’aiuto dell’iperbole».

L’opera e la lingua

Deledda ha lasciato un’opera imponente: trentasei romanzi, duecentocinquanta racconti, due drammi teatrali, alcuni versi, un libretto d’opera, la sceneggiatura per il film tratto dal suo Cenere (1904), che interpretò Eleonora Duse, e il libro delle tradizioni popolari di Nuoro.

Si conviene che il suo Canne al vento (1913) sia meritevole di figurare accanto ai capolavori russi, che lei leggeva e amava, grazie alla forza etica ed emotiva della narrazione, capace di scovare l’incanto delle piccole trame della vita e dei paesaggi quotidiani. I saggi e gli studi critici degli ultimi anni non considerano più l’autrice come esponente di una Sardegna arcaica,  relegata in un regionalismo di scarso spessore, vedono invece la complessità delle sue soluzioni narrative, facendo parallelismi interessanti con Svevo e Dostoevskij.

Grazie Deledda ottenne il Nobel per la letteratura nel 1926, anno in cui fu realizzato questo ritratto.

Il romanzo Nostalgie (1905), dedicato al marito, fu stroncato su Il Corriere della Sera e non fu l’unico, infatti veniva considerata negli ambienti accademici la più sgrammaticata delle scrittrici europee. L’equivoco nacque in forza delle sue scelte linguistiche dovute all’uso consapevole di sardismi lessicali e sintattici, come nel caso di Elias Portolu (1903).

Affetta da cancro, ormai molto sofferente, riuscì a portare a termine, oltre a Cosima, il romanzo Chiesa della solitudine, in cui compare una sorta di congedo alla vita quando parla di  «un sentimento simile alla tenerezza destata da una musica lontana, vaga, inafferrabile, che fa piangere di tristezza e assieme di gioia: e che si vorrebbe precisare, sentirne bene il significato, e non si può, come non si possono prendere gli uccelli a volo».

Come ebbe a scrivere Elisabetta Rasy nel suo Tre passioni, rileggere oggi Grazia Deledda significa sentirla «cara e amica». Nei suoi romanzi non c’è sbocco, non c’è lieto fine, c’è però spazio per la fantasia, a riprova che il testo letterario è un mondo che possiamo esplorare con domande sempre nuove.

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