Nella prima parte della nostra inchiesta sul mondo opaco della pornografia non consensuale abbiamo raccontato alcune tipologie di violazione della privacy su internet e accennato a possibili tutele, fornite dalle istituzioni ma anche dalla società civile. In questo secondo articolo, vediamo come si può evitare che il nostro materiale finisca in rete senza consenso e a rivendicare i nostri diritti in caso dovesse accadere.

Impariamo e tentiamo di trasferire ai più giovani i pericoli nascosti in certi comportamenti così come la fiducia che si possa ottenere la rimozione di eventuali contenuti. Sapere che una soluzione è possibile, anche se non sempre avviene, deve essere di conforto alle vittime che spesso vedono nel farsi del male o nel suicidio l’unica via d’uscita.

Tutto ciò che è privato resti privato

foto di Andrea Arpaia – all rights reserved

Il GDPR, ovvero il regolamento europeo che disciplina la protezione dei dati, dal 2018 permette a chiunque di gestire quali informazioni di sé siano in rete e quali no, dando il diritto di pretendere la rimozione di qualsiasi dato “inaccurato, inadeguato, irrilevante o eccessivo”. La realtà mostra i limiti di questa legislazione, specie per il fatto che tocca alla vittima ricercare le proprie immagini, contattare la piattaforma e denunciare l’illegalità, in un processo lungo, costoso e troppe volte senza risultato.

La UE ha in cantiere il Digital Services Act (DSA) che punta a regolamentare i controlli obbligatori sui contenuti, creando misure più armonizzate tra gli Stati membri e introducendo l’ordinanza di rimozione sovranazionale, eliminando così il più grande limite al successo delle azioni delle vittime. È infatti tipico che un contenuto segnalato venga rimosso nel Paese della vittima ma resti tranquillamente visibile nel resto del mondo.

Per ridurre l’impatto sulle vittime, molti Paesi europei si sono mossi con normative indipendenti, diverse tra loro ma tutte impostate, come quella italiana, su un principio fondamentale molto semplice:

tutto quello che è privato, anche se condiviso consensualmente con il partner, deve restare privato. Appena non lo è più si configura un illecito, punibile con ammende e carcere.

Il Codice Rosso e le norme internazionali

L’Italia affronta il tema all’interno del cosiddetto Codice Rosso, la legge a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere in vigore dal 17 luglio 2019, molto simile a quella di altri Paesi UE. Al suo interno, prevede che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento».

Restano a livello internazionale ancora molti punti ciechi, che la presente normativa non affronta, legati anche alla natura sfuggente della rete, a una giurisprudenza fatta più di sentenze che di norme e alle mutevoli categorie cui appartengono i giganti del web. È curioso in tal senso come, in caso di sentenza europea, Facebook sia tenuto a rimuovere il contenuto segnalato a livello globale, mentre Google possa limitarsi ai paesi UE. Inoltre, per molto tempo, è mancata una vera collaborazione tra gli Stati, che pensavano a rimpallarsi il problema invece che a lavorare insieme alla soluzione.

foto di Andrea Arpaia – all rights reserved

Oltre il revenge porn

Oltre alle normative, esistono organizzazioni private che, in modi diversi, affrontano il tema della cosiddetta NCII (non consensual intimate image – immagini intime non consensuali), categoria all’interno della quale si trovano la pornografia non consensuale (NCP) e il più noto revenge porn, una definizione che è stata adottata a ombrello per tipologie ben diverse tra loro.

Esiste, ad esempio, la sextorsion, cioè l’estorsione di denaro, ma anche di favori sessuali o altro a danno della vittima, dietro minaccia di renderne pubbliche le immagini di natura intima. Oppure il caso in cui una persona venda le sue immagini a un sito porno a pagamento, mentre poi le stesse vengono scaricate illegalmente e iniziano a circolare senza il consenso (e remunerazione) della vittima. Si tratta di casi ben diversi dal revenge porn o dalla pirateria di un account email, ma restano reati da cui ci si può difendere. Conoscere bene le differenze aiuta la vittima a cercare l’aiuto giusto e più efficace per il problema specifico.

PermessoNegato, un aiuto per difendersi

PermessoNegato.it (https://www.permessonegato.it/) è un’associazione senza fini di lucro che si occupa di supporto tecnologico e legale alle vittime di violenza online. Nasce dall’idea di alcuni professionisti di mettere insieme le proprie variegate conoscenze nella creazione di processi di contrasto ai fenomeni di odio digitale.

Esperti di sicurezza informatica, avvocati specializzati in diritto delle tecnologie e dei soggetti deboli, specialisti nella cura alla persona e docenti di autodifesa digitale aiutano le vittime e danno supporto strategico ai legislatori sul tema della sicurezza online. Incontriamo uno dei padri fondatori dell’iniziativa, il presidente Matteo Flora,  esperto di web reputation e cybersecurity che, con il suo realismo graffiante, ci porta dentro questo mondo.

Matteo Flora, presidente di Permesso Negato

«Sono più di 15 anni che mi occupo di repressione della pedopornografia, rimozione di materiale coperto da copyright e revenge porn in modo professionale. Sono consulente in alcune cause contro Google, Facebook e gli altri. Tutto il team ha lunga esperienza, siamo un osservatorio davvero privilegiato: su una montagna di letame, certo, ma la visuale che abbiamo noi non ce l’ha nessun altro. Seguiamo circa 800 casi all’anno. Non perché questo sia il numero delle vittime, ma per un limite oggettivo. Siamo tutti volontari, abbiamo una persona e mezza stipendiate, 6-7 volontari sociali e 5-6 avvocati. Seguiamo solo i casi che riusciamo a curare: gestiamo una vittima con meno di 100 euro di costi. Un nostro punto di forza è la rete relazionale che abbiamo costruito. Molto spesso ci contattano anche la polizia o il Garante della privacy. Con le mani legate dalla burocrazia, chiamano noi per un intervento diretto ed efficace».

L’associazione aiuta le vittime innanzitutto dando un supporto per la segnalazione, «che va fatta per legge dalla vittima ma con il nostro indirizzo. Possiamo così evitare di entrare in contatto con il materiale intimo, cosa sempre preferibile – chiarisce Flora -. Poi ovviamente inizia la nostra pressione sulle piattaforme, attiviamo il processo “spintaneo” di risoluzione della controversia.

Diamo poi un orientamento legale alla vittima. Il supporto in Italia non può essere gratuito ma è consentita questa formula in cui il consulente legale non dice cosa fare ma elenca le possibilità, mai in contrasto con il professionista nominato. Inoltre se la vittima vuole far rimuovere i contenuti ma anche rivalersi in giudizio, possiamo far cautelare i contenuti in modalità forense, accettabili in giudizio come prova anche se le immagini non sono più sulla piattaforma.

Inoltre, altri due comparti della nostra attività riguardano il supporto tecnico a chi pensa di aver subito un’effrazione digitale, fonte molto frequente dei contenuti illeciti in rete, e l’advocacy. Infine curiamo l’Osservatorio e la nostra pubblicazione annuale “State of Revenge”: monitoriamo il fenomeno e pubblichiamo i dati, perché ci siamo resi conto che non ce ne sono molti di disponibili in ambito accademico».

Denunciare, sì o no?

La questione della denuncia da parte della vittima è un tema complesso, poiché a differenza della violenza fisica, ci possono essere risvolti che amplificano il problema. «Noi non consigliamo mai di denunciare i casi di odio digitale. Dalle evidenze a livello globale e dalla nostra esperienza sappiamo che la denuncia porta quasi sempre alla notorietà, che a sua volta peggiora la condizione della vittima – sottolinea il presidente di PermessoNegato -. Si chiama “reverse Streisand effect” dalla famosa Barbra che, nei suoi anni d’oro, aveva inviato una diffida a un giornale per far togliere sue immagini intime e ottenne l’effetto contrario: in poco tempo le sue foto erano ovunque e non si parlava che di lei.»

Comunemente considerato un problema prettamente femminile, la diffusione non consensuale di materiale intimo in realtà non è un fenomeno strettamente di genere. «Nessuno ha interesse a sollevare la questione maschile, la gente conosce solo il revenge porn e quello obiettivamente prende di mira le donne.

Al contrario, nella variante chiamata sextorsion l’80% delle vittime sono uomini. Nel mondo della condivisione di materiale non autorizzato, la percentuale cambia: 60% donne e 40% uomini, con questa parte che include il mondo omosessuale maschile, particolarmente colpito. Una costante però c’è: le vittime possono essere donne oppure uomini, ma a commettere il reato è quasi sempre un uomo».

foto di Andrea Arpaia – all rights reserved

Un registro unico per le immagini non consensuali

Le leggi quindi ci sono, tra Codice Rosso e varie direttive europee sulla privacy e sul copyright. Difficile farsi valere in un contesto internazionale, quindi sarebbe necessario lavorare anche all’origine del fenomeno per ridurre il numero di casi di pornografia non consensuale. Per farlo occorrono «due passaggi necessari, uno repressivo e l’altro sociale – evidenzia Flora -. La repressione non è armonica, esistono molti tentativi, ma slegati e non sempre puntano nella stessa direzione. Stiamo lavorando con Facebook a un sistema che “certifichi” i contenuti che vengono pubblicati. In questo momento, se scopri che delle immagini sono sfuggite al tuo controllo, devi andare su ogni piattaforma a far valere il tuo diritto. Noi crediamo che la soluzione sia un registro centrale che riconosca le immagini non consensuali, una sorta di firma digitale che impedisca alla piattaforma di divulgare un contenuto dichiaratamente illecito».

Quei ragazzi che non separano il bene dal male

Resta il fatto che se così tanti ragazzi trovano normale scambiarsi immagini in chat, siamo di fronte a un problema sociale. Ci si chiede perciò come si possa migliorare la consapevolezza dei pericoli di quel mondo digitale che i giovani credono di dominare. «PermessoNegato non ha il compito di fare educazione all’affettività, ma siamo sempre al fianco di chi dovrebbe insegnarla e di chi dovrebbe occuparsene – conclude Matteo Flora -. Le ragazzine che vengono da noi nel 51% dei casi hanno prima tentato il suicidio. Un quarto trova normale mandare le foto al fidanzato e il 16% non si preoccupa che siano condivise con altre persone. Questo finché non sfuggono di mano e inizia lo stigma sociale. Banalmente è una questione di risorse. Ad avere milioni di euro, come PermessoNegato li spenderemmo quasi tutti nell’educazione nelle scuole. Ma arriviamo a 50mila euro quando va bene e, se devo scegliere, preferisco contrastare l’emergenza».

Al di là del ruolo che dovrebbe avere il sistema educativo, preoccupa il fatto che si parli troppo poco di un problema che ci riguarda tutti, con una forte incidenza sui più giovani. I ragazzi non sembrano comprendere i pericoli, il concetto stesso di limite, di legalità, convinti che sia tutto soltanto un gioco senza vere conseguenze sulla vittima, ignari di quante siano invece ad esempio le ragazzine che hanno sviluppato disordini alimentari e psicologici, che hanno dovuto cambiare scuola o città.

Un dato inconcepibile in un mondo di genitori liberali, aperti e forse troppo sicuri della capacità di distinguere il bene dal male da parte dei propri figli. Tra i quali uno su cinque dichiara di trovare normale lo scambio di immagini sessuali, come fossero figurine dei calciatori. Uno su cinque, che potrebbe essere il nostro, il mio.

foto di Andrea Arpaia – all rights reserved

Le foto in questo articolo fanno parte del progetto fotografico della Granbadò Danza, scuola sotto la direzione artistica di Cinzia Agostini, attraverso il quale le iscritte possono creare un proprio book fotografico. Le ballerine esprimono forza e determinazione e hanno dato un entusiastico consenso all’uso delle loro foto a corredo dell’articolo, felici di poter mostrare che avere il controllo su di sé è impegnativo ma possibile. Foto di Andrea Arpaia – all rights reserved

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