Si resta orfani, anche se chi ci lascia ha 102 anni. È quello che molti veronesi stanno provando in queste ore alla notizia della scomparsa di Vittore Bocchetta. La battaglia contro uno scompenso respiratorio è stata l’unica a fermarlo, ma forse per lui è giunto il tempo di fare nuovi progetti, altrove da qui. È un pensiero consolatorio, forse superficiale, ma condito dalla speranza che chi ha dato così tanto in questa porzione di mondo, in un tempo ben preciso e funestato dalla depravazione del potere, finalmente possa farsi largo e vivere appieno la propria identità di uomo non allineato.

Se n’è andato un supereroe e «i supereroi non dovrebbero mai morire», afferma commossa Margherita Sciarretta, di professione lettrice, narratrice, che da diversi anni realizza letture pubbliche come esperienze immersive nel testo, grazie alla voce e alla dinamica del corpo attraversato dalle parole.

Margherita Sciarretta con Vittore Bocchetta nella sua casa, per la realizzazione del docu-film

«Ero quasi del tutto ignara della ricchezza della sua vita – afferma con commozione Sciarretta, nel ricordare come un anno e mezzo fa ne aveva fatto la conoscenza -. Mi sono resa conto in pochi secondi che rischiavo di perdermi un tesoro immenso, assolutamente avvicinabile e disponibile a raccontarsi. E infatti, grazie ad alcuni amici in comune ho vissuto una folgorazione: Roberto Bonente e Carlo Saletti mi hanno riempita di libri su di lui e scritti di suo pugno, in un periodo in cui le biblioteche erano chiuse. E poi un giorno mi sono decisa e gli ho telefonato: gli dissi che volevo conoscerlo. Così è avvenuto l’incontro.»

Verona da anni ha accolto e raccontato la vita di Bocchetta in quanto vittima della repressione fascista, detenuto in tutte le carceri cittadine, compresa la sede delle SS al palazzo dell’Ina. Essere sopravvissuto alla deportazione nel 1944 al campo di Hersbruck, struttura satellite di Flossenbürg, ne ha fatto un testimone di grande importanza, per la sua indipendenza politica, la militanza nella Resistenza, per l’esperienza da perseguitato antifascista, e per la capacità di dare parola all’orrore vissuto da milioni di vittime.

Della sua storia Margherita è stata l’ultima a prendersi cura, grazie alla realizzazione di una docu-fiction da lei scritta, diretta e interpretata, commissionata dall’Aned Verona “Gino Spiazzi” e finanziata dalla Regione Veneto (“Il Balènte” è visibile dallo scorso 19 gennaio su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=VvEjg87YujY, ndr).

“Ogni fatto qui riportato è scrupolosamente vero, come lo può essere quando dalla memoria emerge il racconto”, si legge all’inizio del cortometraggio. La narrazione è presa dal punto di vista del protagonista: l’opposizione politica, la cattura, la tortura, la deportazione, il lager, la denutrizione, e infine la liberazione, il ritorno a Verona – una città che trova in ginocchio, abitata da vedove e da bambini -, l’emigrazione prima in Argentina, poi in Venezuela, fino agli Stati Uniti, (destinazioni in cui dirsi antifascista veniva percepito come una dichiarazione di fedeltà al comunismo) sono tappe che scorrono veloci. E poi c’è il rientro a Verona, con un lavoro da artista da portare avanti, accanto alla decisione di raccontarsi e di testimoniare.

«Vittore non è solo gli anni della deportazione, la sua vita è densa nella sua interezza – sottolinea l’autrice del docu-film –. E anche con la sua attività artistica ha lasciato tracce intense». In città ha realizzato il Cipresso (un obelisco di acciaio inox alto 7 metri, dedicato ai sei giovani che il 17 luglio del 1944 assaltarono il carcere degli Scalzi per liberare il sindacalista e politico Giovanni Roveda, ndr) e il monumento dedicato al cappellano del carcere, don Giuseppe Chiot. Ma anche all’estero sono presenti suoi lavori: emozionante la scultura Ohne Namen (Senza nome), nel memoriale del campo di Hersbruck. 

Il monumento a mons. Chiot agli Scalzi

A don Chiot Bocchetta dedica una rappresentazione simbolica per il ruolo di colui che ha raccolto le parole dei detenuti per portarle fuori, a mogli, madri, sorelle, figlie. Ne ha anche ricordato nei suoi scritti la capacità di ascolto e i consigli a tenere i nervi saldi, a stare calmo di fronte alla prevaricazione dei suoi carcerieri, parole che gli hanno dato la forza di resistere. E ora quella statua è lì a ricordare questa fase orribile della storia e a parlare non solo di un prete, ma anche di uno scultore, resistente per sempre.

«Invito ad andare a vedere quella scultura, anche se ora è quasi nascosta dagli olivi che sono stati piantati attorno – sottolinea Sciarretta -. Liberiamola, rendiamola fruibile, non può restare quasi celata alla città, soprattutto da oggi.»

Vittore aveva fatto in tempo a vedere il documentario finito. «Ho dei ricordi bellissimi di quando lo ha potuto guardare concluso. Seguiva le immagini commosso, io con le lacrime agli occhi lo osservavo. Per tre volte ha esclamato “brava!”, per me un riconoscimento immenso. Perché, pur nel rispetto della sua storia e delle vicende vissute, volevo dare voce a lui, al bambino che era stato e all’uomo che ha attraversato luoghi, prove, tempi. Volevo far emergere la sua visione della vita, della dignità umana. Tutto quello che è stato scritto nel lavoro è stato approvato da lui, quindi non temo di aver estrapolato qualcosa che lui non condividesse. Ora mi resta la tristezza di una perdita per me avvenuta troppo presto.» Come accade per gli uomini straordinari, di cui non ci si stanca mai di ascoltare le storie, di accoglierne l’esperienza.

Vittore Bocchetta in un altro efficace scatto di @Carlo Saletti

Tra i molti che conserveranno il tesoro che Bocchetta ha consegnato alla città e all’umanità, l’esperienza di Margherita sembra quella di una nipote. Una voce minima, rispetto agli archivi, ai documenti. Priva del rispetto che si può riconoscere agli eredi titolati, lontana da una qualsiasi rappresentanza di natura politica. Ma importante proprio perché ci mette di fronte alla difficoltà di portare avanti questa eredità, innanzitutto umana e storica.

Il Balente – il valoroso -, numero 21631 a Hersbruck, che ha appreso la differenza tra crudeltà e spietatezza, oggetto di disprezzo durante il dominio nazifascista, ma anche negli anni di esilio, negli ultimi tempi ha affermato: «ho resistito, l’ho fatto molto più a lungo di quanto fossi disposto. Rifarei tutto da capo, ma non chiedetemi perché

Ora tocca a noi non solo non dimenticare, ma essere degni della sua esperienza umana.