Da domani, zona gialla! Passaggio atteso e temuto, in questo nostro strano tempo fatto di impalpabili confini cromatici, possibile passo verso la normalità o, come abbiamo già visto di recente, anticamera di nuove chiusure. Ma fra tanti dubbi e interrogativi, quello che domina in coloro che si occupano e si appassionano di cultura e patrimonio è, al momento, uno solo: riapriranno finalmente i musei?

Un caso fortuito ha voluto che una delle prime regioni ad avere l’opportunità di sperimentare la normalizzazione, seppur parziale, che si accompagna ai cambiamenti di colore sia stata, nelle scorse settimane, proprio la Toscana, sede di quegli Uffizi che sono generalmente considerati come il principe dei nostri musei nazionali. E la riapertura, come da previsioni, ha avuto subito ampia eco sulla stampa nazionale, con le interviste di rito al direttore che parla di rilancio attraverso la cultura e servizi un po’ retorici sui cittadini ordinatamente in coda per poter tornare a rivedere il Tondo Doni senza la ressa dei turisti abituali.

Già, i turisti, croce e delizia delle città d’arte, portatori di benessere economico e degrado urbano, risorsa da sfruttare o presenza ingombrante da limitare, a seconda di chi parla e dell’angolatura da cui si osserva il mondo. Ma pur sempre principali convitati di pietra in ogni tavolo in cui si dibatte di musei, come ha confermato qualche settimana fa l’uscita, contestatissima, del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che con un’iniziativa – non la prima, a dirla tutta – quantomeno priva di ogni garbo istituzionale ha annunciato assai spicciamente che nella città lagunare i musei non riapriranno, a prescindere dalla lotteria dei colori, almeno fino ad aprile. Quando – ci risiamo! – saranno tornati i turisti.

Se c’è qualcosa di terribilmente prevedibile, in quel Paese pirotecnico che è l’Italia, è proprio il dibattito sul patrimonio culturale, con ruoli stereotipati e rigidi degni delle maschere della commedia dell’arte. E infatti, come da copione, ecco lo strascico di polemiche in merito alla controversa decisione del sindaco di una delle principali città d’arte del Paese: da una parte, seppure un po’ in sordina, i tutori del rigore di bilancio, che con piglio da Quintino Sella si battono affinché, in un momento di generale crisi economica, i musei non contribuiscano a peggiorare le condizioni dei conti pubblici, sostenendo costi onerosi solo per soddisfare i capricci di qualche flaneur. Dall’altra, gli araldi della cultura gratuita, che nulla deve costare perché senza prezzo sono i benefici che società e cittadinanza ne traggono, e in quanto tali giustificano qualsiasi spesa per rendere musei, siti e monumenti aperti sempre, a chiunque, gratuitamente, con immancabile condimento di esempi virtuosi d’oltre confine.

La questione, in realtà, è evidentemente un filo più complessa, come dimostra il fatto che anche ICOM, l’agenzia UNESCO deputata a mettere in rete tutti i musei del mondo, nel suo intervento-appello alla Fondazione dei Musei abbia condito il proprio richiamo al ruolo sociale dei musei con cenni di pur parziale comprensione per la difficoltà che una realtà come quella veneziana sta attraversando. E del resto, riconoscere un marchiano errore, politico e nel merito, nei modi e nei tempi con i quali il primo cittadino di Venezia ha annunciato la sospensione prolungata dell’attività museale, con ricadute immediate sulla condizione lavorativa già precaria e moltissimi dipendenti, non significa negare alla radice la fondatezza della questione che si pone davanti al decisore pubblico e, per esteso, alla collettività.

Al centro, una parola che dal suo essere divenuta rapidamente di moda ha ricevuto più problemi che vantaggi: sostenibilità. Un concetto ormai consueto, ma che nel dibattito pubblico fatica ancora ad affermarsi come non univocamente connesso al fatto ecologico e ambientale, bensì tripartito, così com’è stato definito dall’Agenda 2030. Sostenibilità che dunque si declina in senso ambientale, ma anche economico e sociale. E se il primo punto, tutto sommato, non ha eccessivo impatto sul mondo della cultura (al più su quello del turismo di massa, ma parlandone perderemmo di vista il focus del nostro discorso), il secondo e il terzo sono esattamente il terreno su cui si gioca la partita della prossima riapertura.

Il quesito a cui rispondere, in ultima istanza, è infatti uno solo: perché esistono i musei o – ancora meglio – per chi esistono? La risposta non è affatto scontata, anche e soprattutto in un’ottica di democrazia partecipativa, perché se fino a qualche generazione fa la funzione dei musei e della tutela del patrimonio storico-artistico poteva – forse – essere largamente condivisa e ricondotta a criteri sommariamente riassumibili come culturali e identitari, con il turismo a svolgere un ruolo tutto sommato ancillare, oggi la situazione potrebbe essere profondamente mutata.

Sia chiaro: qui non si intende mettere in dubbio l’alto portato dell’articolo 9 della Costituzione, o le importanti conquiste della convenzione di Faro, che riconosce «l’interesse pubblico associato agli elementi dell’eredità culturale», ratificata dall’Italia solo alla fine del 2020, o ancora il florido dibattito promosso da ICOM attorno alla nuova definizione del concetto di “museo”. Ed è superfluo specificare che chi scrive è fermamente convinto del valore sociale dei musei, e dell’importanza del patrimonio culturale nel formare una coscienza collettiva e un senso identitario in chiave inclusiva e non-conflittuale.

Tuttavia, porre l’importanza del patrimonio e della sua tutela come un dato assiomatico non può essere il punto di partenza per un dibattito sui musei, salvo non volersi arroccare su posizioni puramente difensive. Domandarsi, proprio perché se ne è convinti, per quali ragioni i musei dovrebbero riaprire subito, anche facendo ricadere i costi sulla collettività, è il primo passo per interrogarsi sulla loro funzione e sul loro ruolo oggi. Anche perché se – estremizzando – un domani la maggioranza dei cittadini non considerasse più il mantenimento di musei come un bene superiore in ragione del quale la collettività deve investire risorse, si arriverebbe all’assurdo della contrapposizione fra principi democratici e tutela del patrimonio culturale, che solo una visione ideologica può considerare inevitabilmente e aprioristicamente congiunti.

Come garantire, dunque, un giusto equilibrio? Innanzitutto, provando a ragionare davvero su come funziona la gestione del nostro patrimonio culturale, che lungi dall’essere una realtà statica, ha richiesto, evolvendosi nel corso degli anni, investimenti e costi sempre più alti. Basti solo pensare ai servizi e alle professionalità che ruotano oggi attorno a un museo contemporaneo, laddove qualche decina di anni fa sarebbero bastati, probabilmente, un bigliettaio e qualche custode. Ma al contempo, i musei hanno dimostrato di saper generare ricchezza in maniera più che proporzionale rispetto alle risorse assegnate – che nel nostro Paese, in particolare nel pubblico, sono sempre state invero piuttosto esigue – promuovendo la nascita di un vero e proprio indotto legato al mercato turistico. In questo senso, i musei sono sicuramente al servizio dei visitatori di passaggio: il punto è, semmai, evitare che solo da essi dipendano, specie se, come la pandemia ci ha dimostrato, quel flusso di ricchezza può improvvisamente interrompersi da un momento all’altro per ragioni del tutto estranee al nostro controllo.

Senza entrare nel pelago delle discussioni sul turismo massificato, che rimandiamo semmai a un prossimo intervento, è chiaro che l’obbiettivo per i nostri musei dovrebbe essere quello di contemperare i due aspetti: da un lato, un servizio alla collettività e, soprattutto, alla comunità che attorno ai musei vive e lavora, per diventare presidio di cittadinanza e spazio vissuto di identità; dall’altro, conservare la propria capacità attrattiva nei confronti del turismo, nazionale e non, per poter accedere a una fonte importante di ricchezza indispensabile per garantire la qualità delle diverse funzioni di queste istituzioni, dalla conservazione alla valorizzazione. Un equilibrio fra due comunità di utenti che può, e anzi deve offrire, anche lo spunto per migliorare l’attività del museo stesso, ponendolo in condizione di parlare a un pubblico vasto ed eterogeneo evitando tanto l’autoreferenzialità – forte rischio, quando ci si concentra troppo sulle comunità locali – quanto gli eccessi di banalizzazione, sempre dietro l’angolo quando sono i turisti il solo pubblico cui è orientata l’offerta. E se ci pensiamo bene, probabilmente le mostre e gli allestimenti migliori che abbiamo visto negli ultimi anni sono proprio frutto un simile approccio.

In questo senso, il problema della sostenibilità economica passa sottotraccia solo all’apparenza, perché è proprio lavorando sull’integrazione dei due pubblici, o meglio delle due comunità, che i musei possono sperare di conseguirla, anche adottando strumenti organizzativi nuovi e differenti da quelli tradizionali. Se infatti da qualcuno l’origine del problema veneziano è stata capziosamente ricondotta alla presenza di una Fondazione, che avrebbe “privatizzato” un patrimonio collettivo, sono numerosi i casi virtuosi che smentiscono questa tesi, a partire da quello – a noi vicino – di Brescia, dove proprio grazie a questo strumento, che garantisce ai musei maggiore agilità e indipendenza, è stato possibile anche in un vero annus horribilis per quel territorio come quello appena trascorso raccogliere energie e risorse per preparare una ripartenza in grande stile, con mostre e aperture gratuite.

Un successo frutto sicuramente di una buona gestione, ma anche dell’eccellente risposta di una comunità che si sente coinvolta dal destino del proprio patrimonio culturale al punto da contribuire economicamente per sostenerlo in un momento di difficoltà. Cosa che, con tutta evidenza, un sistema come quello veneziano fortemente sbilanciato – per ragioni non del tutto dipendenti dalle istituzioni che lo amministrano – sul pubblico turistico non è riuscito o non ha voluto fare.

Non è eccessivo dire che la prova del Covid costituirà un passaggio decisivo, come per molti altri aspetti del nostro sistema economico e sociale, anche per i musei, che dovranno inevitabilmente ripensare se stessi e il proprio ruolo per prepararsi a una stagione di rilancio o, viceversa, di progressivo declino. Soprattutto laddove, come nell’Italia settentrionale, il patrimonio culturale fa capo in misura assai prevalente dai Comuni piuttosto che allo Stato, e dunque, per ragioni di finanza pubblica più che di management culturale, la capacità di far fronte alle emergenze attraverso l’erario è molto più risicata, e la necessità di ripensare i modelli in un’ottica di sostenibilità di conseguenza più impellente.

E Verona? Non sappiamo ancora se e quando i nostri musei civici riapriranno, ma è probabile che problemi di organizzazione interna, connessi alle difficoltà dei privati concessionari dei servizi di biglietteria, renderanno complessa una riapertura integrale a stretto giro, e che ancora per un po’ il nostro sistema museale accuserà il colpo dei mancati introiti, con conseguenze dirette sulla programmazione. La speranza, naturalmente, è che la macchina del turismo torni presto a mettersi in moto, dando ossigeno ai musei e consentendo il ritorno a regime.

Ma l’auspicio è che questa occasione consenta di avviare dei percorsi di rinnovamento virtuosi, che portino davvero la città nel suo complesso a riflettere sul modo in cui il suo patrimonio storico, artistico e culturale viene gestito, per ricostruire un’alleanza fra musei e comunità che consenta di superare in maniera definitiva la dicotomia fra cittadini e turisti. Perché scegliere gli uni o gli altri, a lungo andare, rischia di portare al fallimento.